“Andrea, mi spiace informarti che hai tempo per un'ultima domanda”

“No, ma questa chiacchierata è piacevole, ho tranquillamente altri cinque minuti di tempo”

 

Quando stai conducendo un'intervista e senti dall'altra parte del telefono il talent che “placca” la Pr affermando che sta gradendo quello che gli viene chiesto aggiungendo, come se non bastasse, che gradirebbe parlare per altri cinque minuti, viene naturale avvertire una certa sensazione di orgoglio.

La soddisfazione è ancora più motivata quando il talent, anzi la talent, con cui stai parlando è la costumista inglese Joanna Johnston, un'artista che ha lavorato per la prima volta con Steven Spielberg nel 1984 come assistant costume designer per Indiana Jones e il Tempio Maledetto diventando poi presenza fissa del dipartimento artistico delle pellicole del papà di E.T, nonché di quelle di Robert Zemeckis.

E' a lei che si deve il look di film immortali come Ritorno al Futuro II e III, Forrest Gump, Indiana Jones e l'Ultima Crociata, Chi ha Incastrato Roger Rabbit, Salvate il Soldato Ryan, Munich e Lincoln.

La mia chiacchierata con lei ha origine proprio in occasione dell'arrivo in home video, previsto per domani, dell'acclamato biopic spielberghiano.

 

Lavori con Steven Spielberg fin dai giorni d'Indiana Jones e il Tempio Maledetto. Non ti chiederò semplicemente di parlarci della tua relazione professionale con Spielberg. Sono incuriosito più che altro della chemistry che viene a nascere fra un filmmaker e i suoi collaboratori di vecchia data.

L'aspetto positivo del collaborare più volte con le medesime persone, con gli stessi artisti ha due ripercussioni. Una riguarda la sfera personale, inevitabilmente si va a conoscersi sempre un po' di più, l'altra quella meramente tecnica della sfera lavorativa. Si riesce subito ad afferrare quello che può o non può piacere al regista. Per cui diciamo che, in linea di massima, so già quello che a Spielberg può piacere e quello che a un altro regista può non piacere. Si viene a creare una relazione molto intima. Nello specifico di Lincoln poi, non si è trattato tanto di un lavoro di design, quanto di ricerca, acquisizione e riproposizione della realtà, dato che non si trattava di una storia basata su fatti fittizi in cui potevi spingerti più in là con la ricerca estetica.

 

Hai fatto molte ricerche per i costumi di Lincoln?

Lincoln si è basato tutto sulla ricerca. Questo te lo posso assicurare. Si è trattato di un lavoro molto interessante che ho potuto basare anche sullo studio delle fotografie perché all'epoca in cui è ambientato il film tutti cercavano di avere una propria fotografia. Praticamente tutte le persone rappresentate nella pellicola, a parte un paio, erano state immortalate in foto. Per cui mi sono basata su quei materiali per dare la mia interpretazione degli abiti, dei cappotti, dei cappelli e dei colori perché, naturalmente, si trattava di scatti in bianco e nero. Per le donne poi mi sono basata anche sul concetto che al tempo la moda femminile si basava su quello che era in voga a Parigi. Ho avuto anche modo di studiare gli artefatti originali di quegli anni.

 

Quella di Abramo Lincoln è una figura molto iconica anche per degli europei come te e me. E' stato in qualche modo limitante dover creare il look per un uomo con una sua iconografia già molto solida?

Non direi di aver avuto a che fare con un lavoro a volte limitante; più che altro ero perfettamente consapevole del fatto che una figura come Lincoln doveva essere trattata in maniera adeguata per via dell'importanza storica dell'uomo e dovevo stare estremamente attenta a non renderlo caricaturale, magari andando a premere troppo la mano su quei dettagli che lo avrebbero reso tale. Ma poi, a prescindere dai costumi, quando hai la fortuna di lavorare con un attore come Daniel Day-Lewis, capace di performance come quella data nel film, il rischio di scadere nel caricaturale di cui parlavo prima diventa sempre meno probabile. E' un attore straordinario e questo aiuta molto anche noi addetti al costume design.

 

Come spettatore sono affascinato dalla trasformazione dell'attore in personaggio, che avviene non solo con la recitazione, ma anche con i costumi di scena. Come ti sei sentita quando hai visto Daniel Day-Lewis nei panni di Lincoln?

Sai, si tratta di un lavoro dai ritmi piuttosto lenti, che attraversa vari stadi, quindi hai modo di vedere tutta l'evoluzione della cosa. All'inizio ci siamo concentrati, ad esempio, sul cappotto e poi sui vari aspetti collegati al suo vestiario, ma poi, quando siamo arrivati al 95% della realizzazione del suo look, è stato incredibilmente appagante. Sensazione che è cresciuta ulteriormente in intensità quando l'abbiamo visto girare per la prima volta, diventare il suo personaggio, diventare Lincoln.

 

Quanti costumi avete confezionato?

Guarda, il computo è stato tenuto da altre persone, non me ne occupavo io, ma a braccio direi una cifra compresa fra i 600 e i 700. Abbiamo vestito parecchia gente.

 

Quando parlo con registi o artisti degli effetti speciali, spesso mi dicono che la tecnologia ha cambiato, influenzato il loro approccio al filmmaking. Il costume design sembra molto più basato su questa artigianalità senza tempo, per cui mi domando se in qualche modo il tuo lavoro sia mutato dai primi giorni in cui ti sei mossa all'interno del business.

E' un'ottima domanda. Direi che si, in un certo qual modo, il mio lavoro non è davvero cambiato anche se ho avuto modo di lavorare con registi che amano parecchio la CG e i mondi generati al computer, come Robert Zemeckis. Ma l'essenza del mio lavoro rimane la stessa, anche se magari devi realizzare i tuoi art design col computer o magari, altre volte, devi portare dei veri campioni di tessuti, o magari creare degli abiti che non finiranno mai effettivamente sul grande schermo, ma che verranno impiegati come punto di riferimento per le riprese che poi verranno rielaborate al computer e con i costumi che vengono trasformati in abiti fatti con la computer grafica. Quindi diciamo che nella sua essenza precipua, il costume design è sempre lo stesso, ma magari i procedimenti di applicazione possono mutare se ti trovi a lavorare a un film come Lincoln o come Avatar.

 

Preferisci lavorare a pellicole ambientati in mondi immaginari e sci-fi, come Il Cacciatore di Giganti e Ritorno al Futuro, o a quelli come Salvate il Soldato Ryan e Lincoln, che affondano le loro radici nella storia?

Mi piacciono entrambi perché, alla fin fine, tutto si basa sulla storia. L'ispirazione sostanzialmente nasce tutta da lì, da quello che il regista vuole, dall'ispirazione che riesce a comunicare ai suoi collaboratori. Anche perché a me, personalmente, piacciono cose alquanto variegate fra loro, passare da un mondo costruito da zero come quello de Il Cacciatore di Giganti alla ricostruzione della realtà portata avanti con Lincoln.

 

Hai lavorato tante volte con due leggende come Steven Spielberg e Robert Zemeckis. So che è brutale chiederti di riassumere un'esperienza quasi trentennale in poche parole, ma come descriveresti queste esperienze?

Come descriverei queste relazioni professionali… beh, se ti chiedono di tornare è già un buon punto di partenza direi, no (risate, ndr.). Voglio dire, se giganti come Steven Spielberg o Robert Zemeckis richiamano te al posto di provare con nuove persone, vuol dire che apprezzano quello che fai. Poi con Steven c'è un rapporto particolare, anche perché ho avuto la fortuna di cominciare a lavorare con lui quando ero molto giovane per Indiana Jones e il Tempio Maledetto, quindi si è creata come una specie di piccola famiglia perché ho avuto modo di conoscere sua moglie, i suoi figli. Mi ritengo estremamente fortunata a poter lavorare con filmmaker di questo calibro.

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