Cresciuto con il compagno regista Richard Glatzer in seno al Sundance Film Festival, l’inglese Wash Westmoreland è atterrato al Festival di Roma per parlare del loro personalissimo Still Alice (leggi la recensione), un film di grande intelligenza e classe sulla malattia. Protagonista è Julianne Moore nei panni di una professoressa universitaria di Linguistica affetta da Alzheimer.

Il film, tratto dall’omonimo romanzo di Lisa Genova, è stato presentato nella capitale nella sezione Gala.

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Partiamo dal libro. Come vi siete approcciati con Glatzer al concetto di adattamento?

Direi con estrema rilassatezza. Perché avevamo capito tre cose importanti leggendo il libro di Lisa Genova: 1) avevamo un film 2) avevamo un personaggio forte 3) avevamo un grande finale. Questa consapevolezza ci ha permesso di prenderci anche qualche libertà.

Quali libertà nello specifico?

I dialoghi sono più cinematici. Più brevi. Oserei dire più semplici rispetto al libro.

Il vostro è un film più su Alice o più sulla famiglia di Alice?

Le due cose sono inscindibili. Eravamo interessati alle dinamiche familiari. Un matrimonio realmente felice, tre figli. Due molto accettati e una pecora nera (Kirsten Stewart, la quale vuole fare l’attrice contro la volontà della mamma, N.d.R). Ognuno ripenserà la propria esistenza in relazione alla malattia di Alice. Anche i rapporti interni a questo gruppo cambieranno. Emergerà una sorta di tensione maggiore con la figlia perfetta mentre paradossalmente la pecora nera diventerà più accettata e tollerata dalla madre dopo che è stata colpita dall’Alzheimer.

Tagli rispetto al libro?

Non abbiamo tagliato molto nel rapporto con i figli e il marito. Abbiamo tagliato tutta la parte in cui Alice vive delle relazioni all’interno di un’associazione di persone malate di Alzheimer. Non avevamo tempo. Così come abbiamo rimosso tutte i rapporti tra Alice e i tanti colleghi della Columbia Universitiy dove lei lavora.

Quindi volevate isolare la famiglia?

Esatto. Volevamo avere un obiettivo e non disperdere. Volevamo la famiglia.

Avete girato in sequenza per aiutare Julianne Moore?

Sarebbe stato meraviglioso! Ma… no, era totalmente impossibile. Quello che abbiamo fatto è permettere a Julianne di girare tutte le scene a casa seguendo un ordine cronologico. Ogni volta che ci spostavamo in un ambiente specifico, come la casa delle vacanze sul mare, abbiamo cercato di permetterle di avere una cronologia.

Come avete lavorato con la Moore?

Ha fatto tutto lei. E’ stata incredibile. L’idea era di lavorare su questi minuscoli deterioramenti. Non ho mai visto niente del genere e penso che sul set tutti fossero completamente catturati da quello che Julianne faceva giorno dopo. Ogni ciak era senza difetti. Non ha mai tradito la realtà del personaggio. E’ sempre così concentrata. Qualcosa di speciale stava accadendo sul nostro set e ogni singolo membro della troupe se ne rendeva perfettamente conto.

La famiglia è sempre stata immaginata così controllata e paziente in fase di sceneggiatura?

Assolutamente sì. La famiglia è controllata e composta da pacati intellettuali. Di solito non vediamo così tanta pazienza e razionalità in un film con la malattia.

Vi preoccupava mai tutta questa compostezza?

Ma guarda… è una cosa a cui abbiamo pensato costantemente mentre giravamo. Costantemente. La risposta che ci davamo per farci forza e proseguire su questa linea è sempre stata: noi non vogliamo fare un melodramma medico. In America li chiamiamo “Il film della settimana”. Noi ci chiedevamo: “Cosa accadrebbe veramente a questa famiglia?”. Ci sono flash di rabbia ed esplosioni di risentimento ma sono solo dei lampi. Poi arriva sempre l’intelligenza. Non abbiamo mai scelto di manipolare lo spettatore con musiche o pianti eccessivi.

Anche i produttori sono sempre stati d’accordo con questa linea?

Sì perché tutti pensavamo che i melodrammi medici in realtà… non fossero particolarmente emozionanti. Dipende dai punti di vista. Io non mi emoziono quando vedo questi film sulla malattia dove persone che non dovrebbero litigare litigano sempre e la musica prende per mano lo spettatore accompagnandolo in ogni singola scena. Li trovo insopportabili, manipolatori e proprio non li capisco. Da noi c’è il modo di dire: “Tears on the stage, dry eyes in the house”. Quando si piange troppo in scena, il pubblico si allontana e sente l’esagerazione.

Penso alla scena del litigio tra Bosworth e Stewart. C’è, è forte ma dura un attimo. Non l’avete tirata per le lunghe…

Esatto. C’è…ma poi queste famiglia è troppo profonda e sensibile per non far essere quello scontro niente di più di un veloce scambio di rabbia. Così è più credibile.

Il punto di vista del libro e il punto di vista del film coincidono?

Questo è molto interessante. Il punto di vista del libro è di Alice. Sei nella sua testa. Il film, invece, è metà soggettivo e metà oggettivo. Alice c’è sempre nel film. Non la lasciamo mai. Ogni taglio di montaggio è sostanzialmente da Alice… ad Alice! Quando arrivano i primi sintomi dell’Alzheimer li abbiamo fatti sentire molto nell’inquadratura perché Alice doveva come vederli.

Il fuori fuoco esasperato quando fa lo jogging?

Sì. Serve a far capire che un luogo che lei conosce molto bene come il percorso della corsa quotidiana vicino la Columbia University le dovesse diventare immediatamente estraneo. Quindi serviva un effetto visivo più che uditivo o verbale. Poi le cose cambiano e cambia il punto di vista della narrazione.

Vuoi dire che la camera diventa più oggettiva quando Alice perde la sua soggettività?

Esatto. Non potevamo essere così presenti nella seconda parte del film semplicemente perché Alice non era più così presente a se stessa. A quel punto la osserviamo. Usciamo da lei, dalle sue sensazioni per osservarla da una posizione di maggiore distacco. Ma sempre con grande amore.