Sorriso simpatico e schietto, lingua sciolta e diretta, Ivano De Matteo è magnetico nel rispondere alle domande quanto lo è il suo ultimo film, I Nostri Ragazzi, nel catturare l’attenzione del pubblico. Romano, alle spalle una bella carriera davanti (Le Amiche del Cuore, Velocità Massima, Romanzo Criminale – La Serie) e dietro la macchina da presa (Ultimo Stadio, La Bella Gente, Gli Equilibristi), De Matteo è a Londra per presentare il cupo dramma interpretato da Luigi Lo Cascio, Alessandro Gassman, Giovanna Mezzogiorno e Barbora Bobulova a spettatori e critica del BFI London Film Festival, che prende il meglio dell’ampio catalogo di Venezia e dell’ancor più ampio catalogo di Toronto, attraverso un’attenta selezione. Nessuna sorpresa che I Nostri Ragazzi – ispirato al romanzo La Cena di Herman Koch – risulti tra i titoli scelti per rappresentare l’Italia oltremanica, e parlare con De Matteo è un piacere che fa da eco naturale alla visione del suo bel film, che ha riscosso il sincero plauso della stampa estera sin dalla sua presentazione all’ultimo Festival di Venezia.

Rispetto a Gli Equilibristi, I Nostri Ragazzi ha tonalità più cupe. Come è nata l’idea di questo film?

I Nostri Ragazzi arriva dopo il successo di Gli Equilibristi, film che io ho amato molto; ce n’è forse uno che ho amato anche di più, La Bella Gente, che purtroppo in Italia non è mai uscito ma in Francia è andato molto bene. Ad ogni modo, l’esperienza di Gli Equilibristi mi è entrata dentro, mi ero molto immedesimato nel protagonista, e lo stesso è accaduto anche a Valerio Mastandrea… È piaciuto, ha avuto i suoi riconoscimenti e quindi mi sono chiesto: e adesso, che c***o racconto? Con la mia compagna [la sceneggiatrice Valentina Ferlan, ndr] eravamo alla ricerca di un soggetto, di un’idea, ma io ero terrorizzato. Mi ripetevo: “Mi criticheranno, mi criticheranno…”. Alla fine, a furia di leggere libri un po’ per ricerca e un po’ per piacere, è uscito fuori questo romanzo: La Cena. Dello stesso autore, avevamo letto anche Villetta con Piscina e Odessa Star. Comunque, l’ho letto e riletto, fino a cambiare il mio punto di vista da quello di semplice lettore a quello di regista, e da lì è partita la trafila per i diritti. Operazione complicata, costavano tanto e l’hanno venduto all’estero come un format, ne è stato già tratto un film olandese – ovviamente, sono stati i primi, essendo lo scrittore olandese – e il prossimo anno, Cate Blanchett dovrebbe trarne il suo esordio alla regia – o almeno così ha dichiarato. Noi ne abbiamo fatto la versione italiana.

Mi ha colpito che, per certi versi, I Nostri Ragazzi non sembri un film italiano. È un film universale: si svolge a Roma ma la città non viene mostrata come una cartolina, questa storia potrebbe aver luogo ovunque.

Sì, il film si svolge a Roma ma non volevo certo fare un film su Roma. Volevo trarne una storia che potesse funzionare in Francia, in Spagna, dovunque. Il libro d’origine era olandese e raccontava una realtà prettamente olandese; era impossibile ritrarre gli stessi personaggi, gli stessi lavori nel contesto italiano. Sarebbe stato come prendere un Matteo Renzi della situazione e farlo mangiare a un ristorante di Piazza del Popolo, mandarlo al bar di fronte da Canova e fargli fare una conferenza stampa di denuncia… Poi vederlo al bagno a pisciare… Insomma, era improponibile. Non avrebbe avuto senso, sarebbe stato finto. Questa è la prima cosa che ho voluto cambiare, leggendo il libro non più da lettore ma da autore. Ho dovuto adattare la situazione all’Italia, ho scritto un inizio del film che non combaciava con quello del libro, ho cambiato i mestieri dei protagonisti, ho cambiato il sesso di uno dei cugini e ho cambiato uno dei personaggi del libro che rischiava di far crollare tutta la struttura del film. Il personaggio del professore [diventato nel film un pediatra interpretato da Luigi Lo Cascio, ndr] nel libro è un malato cronico, uno psicolabile quasi folle, costretto a prendere pillole per placare i suoi attacchi d’ira; un uomo che poi si scopre aver trasmesso la propria aggressività in modo genetico al figlio. Quindi, in un certo senso, si giustifica l’atto criminale di cui il ragazzo si macchia. Io ho voluto sfilare questa cosa, perché cozzava con ciò che volevo raccontare. Sarebbe stato un alibi. Nel libro, il lettore è attratto da questi personaggi e li osserverebbe compiere qualunque omicidio, stupro, scasso e crimine possibile. In realtà, amiamo la violenza perché siamo voyeur, guardoni con un bisogno compulsivo di cliccare su qualunque social network per guardare una testa mozzata o una scopata violenta. Ho dovuto togliere tutto questo, perché sarebbe stata una giustificazione e avrebbe creato un distacco.

Una scelta coraggiosa.

Certo. Sei milioni di persone amano guardare atti violenti, perché non non si tratta di loro stessi. Koch addita il malato e, implicitamente, dice che tutti noi possiamo stare tranquilli. Ho voluto rischiare, e la mia paura era che mi venisse detto: “Hai distrutto il libro.” Ho sfilato quella piccola cosa, quella violenza patologica che non è vera violenza. La vera violenza arriva nel momento in cui ti tolgo l’elemento, l’alibi della malattia. Ho voluto rendere più duro e più sottile il racconto; sia chiaro, a me il libro è piaciuto, ma tutta quella violenza camuffa qualcosa che in realtà non c’è. Tu sei attratto perché non sei tu a compiere il crimine, ma nel momento in cui insinuo che il colpevole potrebbe essere uguale a te, il discorso cambia.

A questo proposito, guardando il film, si cambia opinione mille volte su ciascuno dei protagonisti.

Si cambia opinione perché si lavora sul crollo delle certezze. Noi umani siamo dei deboli, camuffiamo con i nostri orpelli, con i nostri tatuaggi, le nostre parrucche, le nostre tinte, i nostri muscoli, i nostri abiti tutte quelle che sono le nostre debolezze di fondo. Ci si schiera sempre con qualcuno, per cercare delle certezze, e forti del gruppo e del corporativismo andiamo a criticare tutto ciò che non fa parte di questo gruppo. È più facile, perché non sei da solo, ma se a un certo punto ciò che critichi dall’esterno te lo ritrovi dentro casa, e cambia tutto il tuo punto di vista. I tuoi tatuaggi, la tua parrucca, la tua barba, i tuoi muscoli, i tuoi vestiti non servono più. Sei tornato a essere nudo, al filo di rame senza la guaina di plastica colorata.

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Nel film ci sono delle inquadrature particolari che mi hanno colpito. In una di esse c’è Benedetta, una dei due cugini adolescenti, che rientra in casa e viene ingabbiata da alcune linee rosse dipinte sui muri in un gioco di prospettive, a formare una cornice rettangolare. Come ti è venuta in mente?

Beh, quella è stata una mia fissa. Sono un tipo molto curioso e stavo guardando una trasmissione molto simpatica con mio figlio, sui tranelli della percezione… Sai, gli inganni dei punti di vista, quelle cose lì. Il conduttore mostrava una sorta di cubo in mezzo a una stanza, che si scopriva poi essere semplicemente una serie di strisce. L’ho vista qualche anno fa, ho recuperato l’idea e mi sono detto: “Voglio mettere Benedetta dentro una cornice, voglio ingabbiarla”. Volevo addirittura fare una cella, ma sarebbe stato davvero troppo didascalico, quindi l’ho solo chiusa in una cornice. C’è un unico punto, nella casa, da cui si può notare questo gioco prospettico; ho messo in croce lo scenografo, perché si trattava di una questione di millimetri! Ho dovuto proiettare un rettangolo di luce per poterne ricalcare, con il nastro rosso, il perimetro.

Perché proprio Benedetta?

Guarda, se fossi un regista sofisticato ti direi che ci ho pensato a lungo e che c’è chissà quale storia dietro… In realtà mi piaceva ‘sta cosa, e qualcuno ci dovevo mettere, fosse stato pure il portiere del palazzo! Quella casa bianca andava spezzata in qualche modo. Mi servivano degli ambienti freddi per la casa di Massimo e degli ambienti caldi per quella di Paolo; da un certo punto del film in poi, la temperatura dei colori si inverte, pian piano. Si scalda la casa di Massimo, vediamo la camera da letto con i quadri, mentre si raffredda quella di Paolo, la fotografia diventa più ghiacciata. Comunque, gli ambienti totalmente bianchi della casa di Massimo andavano rotti con un colore. Da lì, il gioco prospettico.

Non mi pare di aver visto nulla di simile nel cinema, almeno in quello italiano.

No, sicuramente no. Ricordo solo una pubblicità, dove c’era un gioco di prospettiva tra un cane e una sedia che sembrava gigantesca, ma comunque nulla del genere.

Passiamo agli attori: la scelta è stata immediata o avevi in mente altri volti inizialmente?

La Mezzogiorno e la Bobulova le avevo già scelte; per quanto riguarda Alessandro [Gassman, ndr], a un certo punto avevo avuto altre idee, ma avevo sempre la sua faccia davanti agli occhi e quindi, alla fine, ho scelto lui; il ruolo di Lo Cascio doveva essere interpretato da un altro attore, ma alla fine ho preferito lui. Il ragazzino [Jacopo Olmo Antinori, ndr] l’avevo già scelto da subito, e ho trasformato il personaggio dell’altro cugino in una ragazzina per poter lavorare ancora con Rosabell Laurenti Sellers e, soprattutto, per poter rafforzare ulteriormente il rapporto col padre. Il legame padre-figlia mi interessava molto.

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Tra i quattro personaggi, qual’è quello con cui senti una maggiore empatia?

La scelta che avrei fatto, probabilmente, è quella della Mezzogiorno. Probabilmente, avrei protetto mio figlio. Potrei dire “sono con Gassman”, ma sarei un ipocrita, sfoggerei quella parte buona che invece mi piace sempre mettere in discussione. Poi non so, magari potrei anche fare il Gassman della situazione… Spero di non dover mai dare una risposta a questa domanda.

Domanda di rito: progetti in cantiere?

Dovrei girare la prossima estate.

Dramma?

Dramma dolce, sentimentale. È una storia d’amore, ma i miei film partono sempre con dei drammi!

Soggetto originale?

Sì, mio e della mia compagna. Non è tratto da un libro.

Un’ultima curiosità: perché il titolo è I Nostri Ragazzi e non La Cena?

Beh, per La Cena di Scola. E poi, La Cena dei Cretini, La Cena tra Amici… ‘Sta cena è stata già abbastanza sfruttata. E poi, il mio film non è La Cena di Koch! Sarebbe stato un inganno nei confronti del pubblico.

Un ringraziamento ad Alessio Sparapano per l’aiuto