Finisce la nona edizione del Festival Internazionale del Film di Roma con 5 premi assegnati dal pubblico e tante domande che ci ronzano in testa.

Quale sarà il futuro di una kermesse che sembra cambiare pelle ogni anno presentandosi contemporaneamente come una macchina burocraticamente pesantissima e un manifestazione cinematografica così leggera da essere culturalmente impalpabile? C’è un’idea di cinema precisa dietro una rassegna di cui negli anni abbiamo imparato più a conoscere le guerre intestine che non i film, o gli autori, che ha lanciato? E’ una kermesse più figlia di una Direzione Artistica o di un Consiglio di Amministrazione? O di nessuno dei due?

Chi è che decide al Festival di Roma?

Dopo aver assistito a due conferenze stampa di seguito (2013, 2014) dove il Direttore Artistico ha presentato l’imminente edizione mettendo subito le mani avanti e dicendo (alla prima frase) che la selezione di film era avvenuta miracolosamente in solo tre-quattro mesi di lavoro perché prima non si sapeva quasi nemmeno se il Festival ci sarebbe stato o no… viene veramente da chiedersi: “Ma allora perché hai accettato di dirigerlo e non ti dimetti”? E’ fondamentale avere un Direttore Artistico in questo Festival o è solo un equivoco che crea equivoci perché alla fine, chiunque egli sia, non possiede gli strumenti per dare un’impronta personale sulla manifestazione?

Sono emersi dei film italiani cui legarsi nella percezione esterna quest’anno come accadde al Festival di Torino lo scorso anno con La mafia uccide solo d’estate di Pif poi trionfatore al David 2014 (ovvero Oscar italiano) per Miglior Regista Emergente?

Forse solo Fino a qui tutto bene di Roan Johnson. Ma così… un po’ per caso. L’anno scorso spopolarono a livello di gradimento i Manetti con Son’g e Napule ma incredibilmente non furono inseriti in Concorso nonostante ci fosse in competizione un pulp napoletano molto meno pregnante come Take Five di Guido Lombardi.

Il Festival Roma deve decidere chi è, cosa ama, cosa vuole dalla vita. Dopo la drammatica vittoria di Tir dello scorso anno che ha causato la fine della Giuria Internazionale concretizzando i nostri peggiori timori in relazione a quella sciaguratissima scelta, il Festival di Roma 2014 ci è sembrato un po’ alle corde. E ci è sembrato che abbia scelto la strada, per risolvere il suo grosso problema percettivo, della proposta di un caos disorganizzato. Gettare molto fumo in faccia a tutti noi, mettere dentro una marea di film e indurre molti (soprattutto tra i giornalisti) a non capirci più niente. I premi, d’altronde, li dà il pubblico.
E quindi: 1) vincono tanti ma alla fine non vince nessuno; 2) i film da vedere sono una marea ma non ce ne è uno che spacchi.

La sensazione che abbiamo, dopo nove edizioni, è che il limite principale del Festival di Roma sia la confusione di una proposta (che non c’è) e la percezione esterna di profonda antipatia da casta romana (che è palpabile e da correggere asap).

È un Festival confuso? Sì. È un Festival presuntuoso? Anche, ma solo se si pone in conflittualità con altre manifestazioni più navigate ed esperte (Venezia, Torino) e fa la voce grossa senza poterselo mai permettere. Velleitarismo. A Roma conosciamo molto bene questa piaga.

Abbiamo visto delle pellicole d’autore straniere non trascendentali, dei film più commerciali che arriveranno nelle nostre sale nel giro di pochi mesi e molti film italiani che hai la sensazione siano stati scartati precedentemente un po’ da tutti e che è piuttosto incosciente mettere nella sezione per molti ex Concorso internazionale come Cinema d’Oggi (ci riferiamo soprattutto a I milionari di Alessandro Piva) mentre l’opera che sul fronte italiano ha funzionato meglio (Johnson) deve fare un po’ la fine di Song’e Napule del 2013 andando ad occupare, e vincere, la più ghettizzante sezione di Prospettive Italia.

Cosa ha funzionato quest’anno? Quello che ci aspettavamo funzionasse perché c’era un’idea e un cuore dietro: Wired Next Cinema al Maxxi. Incontri quasi sempre affollati, sensazione dell’evento (non siamo riusciti a entrare alla proiezione del fan movie Dylan Dog per quanta gente si era prenotata), divertimento, nuove star dell’audiovisivo (Pills, Jackal, Maccio Capatonda) a confronto con i veterani (Enrico Vanzina).

E’ stato bellissimo vedere anche i ragazzini e le ragazzine sdraiati all’alba vicino al red carpet dell’Auditorium per Sam Claflin e Lily Collins il giorno della presentazione di #ScrivimiAncora. Quello è il Festival di Roma che ci piacerebbe vedere ogni giorno. Perché allora non farne solo una kermesse pop iper glamour senza avanzare pretese autoriali?

Perché non puntare solo ed esclusivamente (e per meno giorni, massimo 7) sull’eccitazione e divertimento di grossi “junket” e red carpet all’Auditorium abbinati a incontri con il pubblico di star registi e/o attori (Tomas Milian è stato molto emozionante)? Perché non smetterla di gonfiare il petto e fare la voce grossa per puntare invece a una rassegna più economica, snella (meno film!), più umile e meno velleitaria in comunicazione? Chi è che può prendere questa decisione? Un Direttore Artistico? Un consiglio di amministrazione? L’apparato burocratico?

Chi è che al Festival di Roma decide cosa debba essere il Festival di Roma?