A Joaquin Phoenix non piacciono le interviste. E non fa nulla per nasconderlo. Paradossalmente però, proprio da questo fastidio alle volte emerge qualcosa di più sincero e originale del solito.

Arrivato a Roma assieme a Paul Thomas Anderson e alla produttrice del film Joanne Sellar per presentare Vizio di Forma, si è seduto al tavolo con la stampa all’interno di un grande ambiente nel quale un paravento lo separava da un’altra tavolata alla quale, sempre con la stampa, era seduto Paul Thomas Anderson. Sia lui che Anderson al momento in cui hanno capito la cosa sono sembrati giocosamente preoccupati del fatto che l’altro avrebbe potuto sentire le loro affermazioni.

Contrariamente al suo attore protagonista Paul Thomas Anderson è invece estremamente alla mano e ben disposto a rispondere a qualsiasi domanda anche se, da come descrive l’isolamento di Thomas Pynchon, traspare che anche a lui non dispiacerebbe non dover mai parlare del proprio lavoro ma lasciare che sia esso a parlare da sè.

Le conversazioni con i tre sono avvenute una dopo l’altra, separatamente ma ve le proponiamo unite per comodità di lettura.

Il protagonista, Doc Sportello, è in tutte le scene del film, non ce n’è una in cui non sia presente. Come avete lavorato a questo personaggio, quali erano le indicazioni di Paul e quali le idee di Joaquin?

PTA: Non fornisco mai indicazioni precise a Joaquin. Per questo film gli ho passato il libro di Pynchon e poi la sceneggiatura, siamo partiti da lì. In aggiunta a questo abbiamo visto un documentario intitolato The most dangerous man in America: Daniel Ellsberg and the pentagon papers, sui documenti del Pentagono e il coinvolgimento degli Stati Uniti in Vietnam, e gli ho suggerito di rifarsi alle immagini delle canzoni di Neil Young. Alla fine gli ho detto: “Ecco, qualcosa così”.
JS: Ottenere i diritti per usare le canzoni di Neil Young non è stato facile. Il resto si ma quelle no, abbiamo fatto vedere un bel po’ di film al suo staff che creativamente ha acconsentito ma per metterci daccordo finanziariamente abbiamo negoziato tantissimo, ottenendo alla fine una cifra che per noi è stata molto grossa.
JP: Preferisco non agire mai consciamente, non pensare a che espressioni fare o che atteggiamenti assumere, lasciando che il personaggio mi guidi. Ad esempio rispetto a The master qui la lavorazione ha risentito del personaggio, lì era un’isola qui invece Doc Sportello è uno che vuole abbracciare ogni dimensione della vita e tutte le persone intorno a lui, dunque anche io sul set ero molto più socievole e disposto ad abbracciare il mondo intorno a me. Però forse nulla di tutto ciò che ho appena detto è vero… Stai così tanto tempo sul set che ci sono giorni che sei più triste e giorni in cui sei più allegro, non è sempre uguale, quindi non lo so. Dico queste cose giusto per far passare un po’ il tempo.
A proposito ma The master in italiano come si chiamava? Il maestro?

No, una volta tanto hanno tenuto il titolo originale

JP: Davvero? Mi sembrava ce l’avessero detto quando siamo arrivati in Italia per la promozione. Paul ne era così lieto…

Ad ogni modo sembra che il rapporto tra te e Paul Thomas Anderson funzioni moltissimo

JP: Alle volte capita che ti trovi bene con una persona, che ti piaccia e sia piacevole stargli intorno. Non sembra perchè è una persona calma e sottotono ma Paul è davvero capace di eccitarsi per quello che fa, è una qualità che apprezzo. A Paul piace immergersi totalmente nel mondo dei film che fa e anche a me, quindi ci immergiamo completamente entrambi ed è fantastico.
Ed è anche un tipo divertente, ridiamo molto!

Come mai hai deciso di adattare proprio Vizio di forma tra i molti libri (mai portati al cinema) di Thomas Pynchon?

PTA: Sono libri molto difficili da tradurre in film, originariamente avevo in mente di trasporne un altro ma alla fine abbiamo capito che Vizio di forma era più presentabile, o almeno un po’ più presentabile. Ho cominciato a scrivere la sceneggiatura sapendo che, in soldoni, era la storia di un uomo con una missione e da lì ho proseguito.

Un autore criticamente forte ma commercialmente non eccezionale con un libro di uno scrittore mai adattato prima, non deve essere stato facile da produrre?

inherent-vice-poster-josh-brolinJS: Per nulla, ma non è mai facile finanziare un film di Paul anche se non si direbbe. Lavoro con lui fin da Boogie Nights e non avendo mai avuto una vera hit al boxoffice diventa sempre più difficile produrli. Tutti vogliono supportare un film di Paul Thomas Anderson ma quando è il momento di tirare fuori i soldi sono sempre meno quelli che aderiscono. Per fortuna la Warner, che era già entrata un po’ in The Master, saputo cosa voleva fare dopo Paul ha deciso di produrlo. Ad ogni modo il budget è stato di 20 milioni, non avevamo mai lavorato con cifre così basse.

Si è molto parlato dei rapporti con Thomas Pynchon specie per i cambi alla storia.

PTA: No, non ne abbiamo avuti, per scelta sua. Abbiamo semplicemente fatto finta che non esistesse, magari è una donna o una bambina oppure ci sono molti Thomas Pynchon, accettiamo quel che troviamo nel libro. Se potessi tornare in vita vorrei fare come lui, isolarmi e far parlare solo il mio lavoro.

[Pynchon è noto per condurre un’esistenza reclusa, lontano da tutto e tutti. Non compare da nessuna parte, non interviene mai nè si fa fotografare. Tuttavia in un’altra intervista, qualche settimana fa, a Joaquin Phoenix era scappata l’affermazione che in realtà spesso sul set Paul Thomas Anderson parlava di come si fosse sentito al telefono con Pynchon e di come avessero lavorato per aggiustare delle scene. Inoltre Josh Brolin sostiene che, sebbene non sappia come sia fatto lo scrittore nè lo potesse riconoscere, nel film lui sia presente in un piccolissimo cameo da qualche parte del quale tutti sono all’oscuro. Paul Thomas Anderson senza smentire nulla ha solo detto che “Non sanno di cosa parlano” ndr]

Sapete se ha visto il film, ovunque egli sia?

JS: L’ha visto e ne è felice ma non l’abbiamo contattato

Il film dipinge un mondo che sembra appartenere più ai sogni che alla realtà, per la quantità di eventi strani che si rincorrono, o forse ai ricordi. Ha pensato di girarlo dandogli una qualità onirica?

PTA: Mi piace l’idea che sia tutto il sogno di un mondo a cui non possiamo più tornare, ma non sono daccordo con il fatto che sia lontano dalla realtà. È un mondo che quando lo leggi sembra impossibile eppure tratta di argomenti molto quotidiani, sembra quasi scioccante ma queste esperienze che puoi fare, quasi extrasensoriali, alla fine sono normali.

Il film è pieno di grandi attori e volti noti ma il ruolo più iconico, quello di Shasta, è lasciato alla meno conosciuta, Katherine Witherspoon. Come è stata scelta?

PTA: Era da tempo che l’avevo notata, mi aveva colpito perchè ha un corpo e un volto molto anni ‘60/’70, ho voluto provinarla per la parte e quando l’ho fatto ed è stato evidente che era perfetta per il film.

Una parte importante del film ruota intorno al concetto di vizio di forma, nel preparati al ruolo hai rilfettuto su un tuo vizio di forma?

JP: Non so se ne ho uno, credo che ora dovrei dire qualcosa di onesto e divertente, qualcosa che vi faccia ridere ma non mi viene in mente niente. Potete inventarvelo tanto l’avreste fatto lo stesso. [quest’ultima affermazione non è stata inventata ndr]