“…and these children that you spit on,

as they try to change their worlds

are immune to your consultations.

They’re quite aware of what they’re going through…”

– David Bowie

 

Uno dei primi trucchi, espedienti che si devono imparare facendo il mestiere d’imbrattacarte – internettiano o meno – è che l’attenzione del lettore va catturata subito, fin dalle primissime parole che vengono vergate con la qwerty sul .doc.

Banale a dirsi, un po’ meno a farsi.

Scrivere un articolo, nonostante il debito distacco verso l’oggetto d’attenzione del medesimo che talvolta la professione richiede, resta pur sempre un atto con implicazioni emotive potenzialmente profonde. Specie se, come nel mio caso, ti ritrovi a percepire uno stipendio per comunicare sensazioni, emozioni, impressioni su un ambito amato in maniera così viscerale come il cinema.

Trovare “l’attacco” di cui sopra potrebbe diventare abbastanza arduo. Il barcamenarsi fra “distacco” e “genuina passione” è un percorso intricato, reso meno ostico grazie all’esperienza. Ma le insidie restano.

Questo è uno di quei momenti in cui tutte le regole, tutti i buoni propositi possono essere cordialmente mandati a quel paese, per lo meno dal sottoscritto.

Perché parlare di un film come Breakfast Club di John Hughes, ora riproposto in home video dalla Universal in occasione del trentennale, non è semplice per tutte quelle “implicazioni” citate prima.

Diventa impossibile circorscrivere il discorso al solo film menzionato. E, sarò sincero, nemmeno voglio provarci. Lascerò vagare liberi i pensieri e le emozioni. In caso, prendetene atto.

Il regista, sceneggiatore, produttore, ispiratore e nume tutelare del brat pack John Hughes è morto sei anni fa a New York, stroncato da un attacco cardiaco a soli 59 anni.

Come molto spesso accade nella vita di tutti i giorni, ti accorgi dell’importanza di qualcuno solo nel momento in cui sai che gli eventi hanno, in un modo o nell’altro, contribuito a separarti definitivamente da questa.

Per la seconda volta: banale da dire, complicato averci a che fare. Una frase che sarebbe tornata utile come attacco del pezzo che sto scrivendo, ma la mia materia grigia ha scelto di farmela piazzare a discorso già cominciato, per cui sarà il caso di rassegnarsi.

John Hughes, dicevo.

Se dovessi citare i nomi dei registi della mia infanzia, di quei filmmaker che amo ancora oggi, che mi hanno accompagnato in un percorso di crescita personale, penserei automaticamente a gente come Steven Spielberg, John Landis, Joe Dante, Mel Brooks, breakfast club blu rayGeorge Lucas, Tim Burton, Richard Donner. Eppure, quel disgraziato 6 agosto di 6 anni fa, ho avuto un’illuminazione degna di Epimeteo, il “fratello rallentato” di Prometeo, e ho compreso un concetto nascosto efficacemente dalla sua stessa evidenza: John Hughes è stato il mio più grande, importante padre cinematografico.

Che si tratti di pellicole da lui scritte e dirette o solo sceneggiate, i film confezionati in quel magico lasso di tempo che va dal 1983 al 1993 – due lustri in cui si concentra il suo “periodo d’oro” – hanno segnato indelebilmente la mia persona.

Basterebbe citare che la prima “cotta” filmica della mia esistenza è collegata a due lungometraggi di Hughes. Non ricordo esattamente quanti anni avessi ai tempi della visione di Sixteen Candles o Breakfast Club, ma non dimenticherò mai il momento in cui ho visto comparire sullo schermo, nel caotico inizio giornata della famiglia Baker, Molly Ringwald e i suoi capelli rossi. Amore a prima vista. Mi domando se il mio spontaneo “perdere la trebisonda” di fronte ad attrici dalla fulva chioma dipenda da questo imprinting risalente agli anni ottanta.

Innamoramenti a parte, Hughes, che fondamentalmente era un geek occhialuto come me e tanti altri, è sempre riuscito a toccare in modo intimo, eppure mai invasivo o fastidioso, le corde del mio animo.

L’ha fatto con storie in cui tutti si dimenticavano il compleanno di una ragazza arrivata alla fatidica età di 16 anni, in cui un preside un po’ rompipalle costringeva un gruppo di ragazzi vengono costretti a trascorrere un sabato di “detenzione scolastica”, in cui un adolescente adorabilmente “paravento” decide di fingersi malato e di saltare la scuola per godersi appieno una splendida giornata di primavera, in cui un uomo d’affari di Chicago con un palo ben piantato nel deretano si ritrova a dover condividere la strada verso casa con un fastidioso compagno di viaggio.

Una presenza costante dei primi 15 anni della mia vita, meno “ingombrante” di quella di alcuni suoi illustri colleghi come quelli citati prima. Eppure era sempre lì, pronto a divertirmi, a farmi riflettere, a far sentire la propria eco già a partire da In Viaggio con Pippo fino ad arrivare all’agrodolce malinconia dei film di Judd Apatow o dei sottovalutatissimi Easy Girl di Will Gluck e Bandslam.

Perché il pregio più grande di John Hughes è sempre stata la sua sincerità, la sua schiettezza, la sua capacità di raccontare la vita e le sue mille sfaccettature, belle o brutte che fossero, senza peli sulla lingua. E l’onestà di un autore nei confronti del pubblico è una qualità che, magari sul lungo periodo, tende sempre a essere ripagata. Instaurando una vera e propria connessione emotiva, un’eredità capace di mettere alle corde anche la terribile capacità di erosione che il tempo esercita su ogni cosa.

Ed è proprio per questo che, almeno nel mio umile caso, non dimenticherò mai John Hughes e l’importanza che le sue opere hanno avuto e hanno tutt’ora. E’ stato un padre putativo che non ho mai avuto il privilegio di conoscere direttamente, ma che grazie ai suoi film sarà sempre con me.

Adesso però vi saluto. Fuori splende il sole, fa caldo e ho voglia di andare al mare a fare una passeggiata. Penso proprio che telefonerò ad Andrea Francesco e fingerò di avere la febbre.

“La vita scappa via in fretta. Se uno non si ferma e non si guarda attorno, rischia di sprecarla”.

Me lo ha insegnato il mio amico Ferris Bueller.

 

 

Hey, hey, hey, hey
Ooh, oh

Won’t you come see about me?
I’ll be alone, dancing, you know it baby
Tell me your troubles and doubts
Giving me everything inside and out

And love’s strange so real in the dark
Think of the tender things that we were working on
Slow change may pull us apart
When the light gets into your heart, baby

Don’t you forget about me
Don’t, don’t, don’t, don’t
Don’t you forget about me

Will you stand above me?
Look my way, never love me
Rain keeps falling, rain keeps falling
Down, down, down

Will you recognize me?
Call my name or walk on by
Rain keeps falling, rain keeps falling
Down, down, down, down

Hey, hey, hey, hey
Ooh, oh

Don’t you try to pretend
It’s my feeling, we’ll win in the end
I won’t harm you or touch your defenses
Vanity and security

Don’t you forget about me
I’ll be alone, dancing, you know it baby
Going to take you apart
I’ll put us back together at heart, baby

Don’t you forget about me
Don’t, don’t, don’t, don’t
Don’t you forget about me

As you walk on by
Will you call my name?
As you walk on by
Will you call my name?
When you walk away

Or will you walk away?
Will you walk on by?
Come on, call my name
Will you call my name?

I say, la la la
When you walk on by
And you call my name