Jacques Audiard è uno di cinema. La cosa che più gli interessa sono i film e tutto quello che influenza i film o che dai film influenza gli spettatori, non il lato sociale delle storie, non quello che accade nel mondo (anche se spesso finisce nei suoi film), non il parere o i discorsi sui grandi temi ma solo quello che accade dentro e per i film. L’intervista con lui, a Roma, in occasione dell’uscita italiana di Dheepan (film che gli è valso la Palma d’Oro) inizia allora con una sua precisazione, molto tranquilla ma anche ferma. Fatta con il sorriso ma dotata di una certa perentorietà.

Lo voglio dire come prima cosa, così questa parte la sbrighiamo subito: sono contento di aver vinto la Palma d’Oro e sono a favore dell’integrazione razziale. Ora che lo sappiamo possiamo parlare di cinema, cosa che preferisco rispetto al parlare di tematiche sociali

La precisazione è d’obbligo visto che Dheepan racconta di una famiglia che non è una famiglia, un trio che si spaccia per tale ma non ha legami di sangue e, dallo Sri Lanka, cerca solo un modo per arrivare in Inghilterra. Per farlo deve passare per la Francia, dove dovrà sostare per un po’, trovare un lavoro, mantenersi e intanto pianificare la fuga. Sopravvivere in un condominio francese però sarà più complesso di quel che i 3 avessero preventivato.

I suoi film iniziano sempre in maniera molto canonica, attaccati alla realtà e ai drammi dei personaggi. Verso la fine però scivolano e diventano violenti, come se le sue storie non potessero che risolversi nella violenza, come se la violenza fosse l’unica possibile salvezza per quei personaggi.

Mi trovo costretto a constatarlo anche io. È una cosa che ho capito di recente, cioè che ho bisogno di una certa stilizzazione per far sì che i miei personaggi diventino eroi cinematografici. Prima si muovono nella verosimiglianza, quando però arriva la violenza lo spettatore sa che sta vedendo una storia di cinema. È come se in quei momenti diventassero vulnerabili, nella sparatoria.

Cioè è quando fanno male a qualcuno che diventano vulnerabili?

Si, diventano figure di genere attraverso la violenza, sono momento in cui lo spettatore è interrogato direttamente. Ad esempio in Dheepan quando il protagonista traccia per terra la linea che divide il condominio [un atto belligerante con il quale comunica ai suoi nemici che quello è il suo territorio ndr] chiedo allo spettatore se è disposto a seguirmi oltre quel confine, abbandonando il dramma realista e finendo nel film di genere.
È una figura di genere che uso spesso ed un riferimento diretto a A history of violence quando sul prato padre e figlio tracciano un confine, come a dire che la verosimiglianza non c’è più e ti viene chiesto di seguirli nel terreno dell’inverosimile, cioè nella finzione.

È quel che accade in Un profeta quando il protagonista perde l’udito?

Si, quella scena ha la stessa funzione e me ne rendo conto solo ora. Quando le penso, scrivo e giro non ne ho coscienza. Altri mi hanno fatto notare che quando Dheepan sale le scale si tratta di un momento non diverso da quello del finale di Taxi driver, ed è vero. Ci sono delle forme di cinema che ci influenzano e nemmeno lo sappiamo.

Pensa ci sia un quoziente di violenza connaturato alla situazione dei migranti?

Il punto è che rispetto a loro noi siamo di una ricchezza di cui non ci rendiamo conto, queste persone spesso hanno vissuto cose infernali, si sono salvati la pelle ad un prezzo che non potremo mai capire, e cosa ne fanno della violenza che hanno dentro di sè, sia quella subita che quella perpetrata? È questo il motivo per il quale in questo film ho inserito della violenza, perché quest’uomo che si mette la cuffietta per vendere rose prima o poi tirerà fuori questa violenza che ha dentro e cosa accadrà? I nostri soldati al ritorno dalla guerra sono seguiti dai medici per superare lo stress post-traumatico ed è razzista da parte nostra non pensare a cosa hanno vissuto loro e a come potremmo aiutarli a superare tutto quello che hanno respirato.

È l’obiettivo del film?

Credo che il progetto del film sia molto semplice: prendere uno sconosciuto, dargli un nome e una storia e con la forma del cinema filmarlo, cosa che risponde già ad una domanda sui migranti che per definizione sono anonimi.

Per questo ha voluto un non-attore come Jesuthasan Antonythasan?

Sì e no. Quando ingaggi un attore che non è un attore quella persona tende a pensare di essere stato scelto per quel che è nella realtà, ma non è così. Ho dovuto lavorare molto con Anthony (lo chiamiamo sempre così per abbreviare) per fargli capire che il personaggio che deve recitare non è lui e che anzi doveva fare un percorso per poterlo incarnare. È stato il lavoro più complesso di tutto il film, anche se poi svolgerlo è stato semplice perché Anthony non aveva nessuna pretesa, andava solo corretto nella postura, nel comportamento, nella voce e nella gestualità.

Che rapporto ha instaurato con gli attori?

Diverso dal solito. Il film precedente [Un sapore di ruggine e ossa ndr] era molto costruito, stilizzato, fabbricato: un melodramma. In Dheepan fin dall’inizio ho scelto con il mio sceneggiatore di non avere quel tipo di limiti, volevo altro. Abbiamo così deciso di scrivere un copione minimo, lasciando una serie di cose da sviluppare. Il rapporto tra Khali e Vincent Rottiers (la scena tra loro due è praticamente improvvisata) ad esempio o quello tra Anthony e Khali o ancora parte del rapporto con la bambina, l’abbiamo intenzionalmente lasciato da sviluppare durante le riprese. Ci pareva giusto lavorando con attori che non comprendevano la nostra lingua e la cui lingua noi non comprendevamo. Spesso durante un ciak scrivevo la scena successiva.

Nel film l’Inghilterra è una specie di Eden, come se fosse un posto più accogliente della Francia…

È solo un obiettivo che i tre si sono posti e verso il quale tendono, mi serviva per dargli uno scopo. Tant’è che poi, anche se nella finzione lo è, non è davvero l’Inghilterra quella delle ultime inquadrature, quelle immagini le ho girate in India perché volevo un sole che li scaldasse, e bisognerebbe aspettare il 2050 per trovare un sole così in Inghilterra.

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