Non ci sono mai scelte casuali o di opportunità tra quelle più importanti del Festival di Torino.

Il fatto di assegnare quest’anno il Gran premio Torino a Terence Davies è uno degli atti più necessari e doverosi di riconoscimento cinefilo ad un autore tra più incomprensibilmente sconosciuti.
Comprensibilmente saranno moltissimi coloro i quali sentono per la prima volta questo nome, eppure si tratta di un cineasta che esordisce nel lungometraggio nel 1983 e in questi trent’anni ha realizzato 8 film di cui 3 negli ultimi 7. Non una produzione troppo feconda ma nemmeno risicata, specie considerato che tra questi si annidano alcuni dei colpi d’autore più clamorosi dei loro anni.

Davies è conosciuto soprattutto per la trilogia di film sulla sua infanzia, ovvero The Terence Davies Trilogy, Voci lontane…. sempre presenti e Il lungo giorno finisce, tre lungometraggi che non somigliano al cinema narrativo, raccontano i ricordi imitando le giustapposizioni imprevedibili della memoria e che sembrano seguire il solo filo logico della musica che li accompagna, con una malinconia e un senso di perdita e abbandono rispetto ad un mondo che non esiste più che nessun altro regista ha mai affrontato. Eppure il regista inglese è capace anche di lavorare con una star come Rachel Weisz nel più fiacco Il profondo mare azzurro. I suoi film non somigliano a quelli di nessun altro, sono elegie che sconfinano senza ritegno nella poesia, fondati sia su una dimensione estetica unica, sia su una cura originalissima della colonna audio.

Quando non sono espressamente una messa in scena dei suoi ricordi le opere di Terence Davies sembrano ambientate nel sogno di qualcun altro, vivono di atmosfere sospese e sono in grado di suscitare i sentimenti più consueti attraverso percorsi mai esperiti. Davies gira spesso intorno al melodramma ma vive un cinema libero dalle regole del genere, le sue storie sentimentali sono quasi sempre finalizzate all’affermazione di femminilità idealizzate, lontanissime da ogni realismo eppure prossime alla cristallizzazione del sentimento inteso nella sua accezione più pura ed astratta. Nonostante ricerchi un forte realismo è anche evidente che lo mette a frutto in scene da un mondo remoto e distante.

Così è anche Sunset song, il suo ultimo film presentato qui a Torino, ne abbiamo parlato nella recensione e freschi della visione abbiamo potuto incontrare Terence Davies. Sorprendentemente (o forse no) l’autore di film così rarefatti e dichiaratamente poetici ha parlato moltissimo di soldi nel rispondere alle nostre domande su come abbia costruito quest’ennesima opera di incomprensibile leggerezza e umanità.

Questa storia gigante ha delle qualità da Via col vento, ha cercato quel modello?

TERENCE DAVIES: “Beh di certo non avevamo quel budget! Certo c’è una grande epica ma è un paragone davvero troppo grosso per me. Inoltre quando un film è finito non lo sento più mio, mi trovo sempre a chiedermi cose come da dove mi siano venute certe idee o perché abbia compiuto certe scelte, è così strano….

Da sempre ha un’attenzione incredibile alla colonna audio. Alle volte ci sono canzoni che occupano tutta la durata del film in altri casi, come quello di Sunset song, fa un uso dei silenzi che è impressionante e mai sentito prima, come ci lavora?

TD: “Scrivo tutto nella sceneggiatura, mi segno se dovrò usare un carrello oppure mi servirà un dolly per una certa scena, e quindi anche se voglio una musica o un silenzio. Devo fare così per forza perché con i pochi soldi che riesco a racimolare devo realizzare lo script più preciso e secco possibile, in modo da avere quello che mi serve solo quando mi serve. Con i miei budget non posso decidere all’ultimo momento, è una questione pratica.
Alla fine scrivo tutto quel che vedo e sento eppure alle volte sono solo fortunato, magari so che una certa scena ha bisogno di qualcosa ma non so cosa e a quel punto sento una canzone alla radio e capisco che è quello che sto cercando, oppure mi ricordo di un brano ascoltato 25 anni prima. Tutto ciò mi arriva, viene da qualche parte – Dio sa da dove! – ma quando arriva so di doverlo mettere nella scena”.

In Sunset Song ci sono alle volte delle scelte pazzesche, parlo ad esempio di quando al culmine della scena matrimoniale lei inspiegabilmente tiene un primo piano sugli sposi più a lungo del necessario, con un effetto imprevedibile e bellissimo. Questo genere di soluzioni le decide in fase di scrittura, sul set o nella sala di montaggio?

TD: “Sta tutto già nell’inquadratura e quello che devi fare è solo capire quando quella ripresa comincia a morire, a volte hai bisogno di un terzo di essa, altre ti serve ogni singolo fotogramma. Non so da dove mi venga quest’atteggiamento, io sono l’ultimo di dieci figli, quindi non avevo molto diritto di parola ma di contro sono sempre stato un grande osservatore. So quindi che la gente non si alza e cammina prima di cominciare a parlare, semplicemente non lo fa e tu devi rappresentare come la gente si comporta, perché nella maggioranza dei casi i personaggi sono persone ordinarie”.

Lavora molto con gli attori per farli recitare come dice lei?

TD: “Il punto è che c’è un problema con gli attori, specialmente nel cinema, ed è che recitano in maniera sconnessa, le scene non sono girate in maniera cronologica, così è difficile avere un senso dell’architettura di ogni scena, è la forma più difficile di recitazione. Per questo io gli dico sempre “Non recitate!” perché altrimenti non ci credo, non sembra vero.
Il cinema cattura due cose: la verità e gli attimi fugaci, questi possono essere minuscoli ma avere effetti mostruosi sullo schermo. Queste due cose sono ciò che provo a raggiungere”.

Gli attimi fugaci li coglie al volo, quando accadono sul set o li scopre solo vedendo la scena dopo, in postproduzione?

TD: “Molto accade sul set per questo sono fugaci, ma alle volte capisci subito che qualcosa è buono eppure non posso farlo ripetere all’attore perché altrimenti non sarebbe più reale ma artificioso. Per questo faccio molte prove, così se noto qualcosa glielo faccio ripetere fino a che non diventa abitudine, alle volte sono dettagli minuscoli eh. Per esempio in Sunset song ho insistito molto sulle R arrotate dello scozzese, fino ad arrivare ad estremi quasi comici. Poi accadono anche cose assurde come in Il profondo mare azzurro, in cui un oggetto di scena era una scatola fatta a mano le cui clip non so perché facevano un rumore immenso, era la forma stessa della scatola che faceva da cassa di risonanza, quel rumore nel silenzio era potentissimo. ECCO COSA CI VUOLE!

Sunset song è tratto da un romanzo e immagino che sia una necessaria riduzione. Su cosa ha scelto di concentrarsi rispetto al testo di partenza, di tutti i temi cosa le interessava davvero?

TD: “Mi piace molto l’idea di un’epica intima e adoro la chiusura, dopo la fucilazione, perché la protagonista capisce bene che deve perdonare, che se non lo fa vivrà per sempre nel passato. Noi siamo l’unica specie che perdona e sappiamo che non c’è nulla peggio dell’angoscia e del rimorso. La protagonista li perdona per tutte le sofferenze e va avanti, questo ho amato”.

https://www.youtube.com/watch?v=qAphQmZzVgk

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