Il film fece furore all’ultima edizione della Festa del Cinema di Roma del 2015 e ora, finalmente, esce in sala. Abbiamo scambiato quattro chiacchiere (o forse più di quattro) con il regista romano di Lo Chiamavano Jeeg Robot Gabriele Mainetti, lanciato come attore nel 1999 da Il Cielo In Una Stanza dei Vanzina Bros accanto ad Elio Germano e diventato nel corso degli anni regista di corti di culto con l’omaggio a Lupin III Basette (2006) e l’interessante gioco sul manga L’Uomo Tigre di Ikki Kajiwara e Naoki Tsuji Tiger Boy (2012).

Lo Chiamavano Jeeg Robot è il suo esordio nel lungometraggio. Enzo Ceccotti (Claudio Santamaria) è un piccolo criminale romano della periferia che diventa super dopo un inseguimento con la Polizia. Incontrerà Alessia (Ilenia Pastorelli), una ragazza un po’ svitata fissata con l’anime giapponese Jeeg Robot D’Acciaio, e Fabio Cannizzaro in arte Zingaro (Luca Marinelli), criminale con il rimpianto di non essere diventato cantante pop star della tv. L’intervista spazia dal passato da cortista di Gabriele all’identità di questo bizzarro superhero movie tutto italiano (e molto romano) passando per sue passioni cinematografiche e un ultimo struggente ricordo di un regista italiano che Mainetti non esita a definire… Maestro.

Abbiamo incontrato Gabriele in un bar di Piazza Della Madonna dei Monti a Roma a pochi giorni dall’uscita in sala del suo atteso esordio. All’inizio era visibilmente agitato.

 

 

Sei nervoso?
Molto. Chissà se gli italiani saranno curiosi di vedere questo film.

Facciamo un passo indietro. Come mai questa ossessione per testi “pop” giapponesi con i quali la nostra generazione (Mainetti è nato il 7 novembre 1976, N.d.R.) è cresciuta? A partire dai corti Basette (ispirato a Lupin III), Tiger Boy (con chiaro riferimento all’anime L’Uomo Tigre) fino ad arrivare a Lo Chiamavano Jeeg Robot ispirato al manga di Gō Nagai e Tatsuya Yasuda diventato anch’esso anime?
Fondamentale da questo punto di vista ricordare la collaborazione con il mio sceneggiatore storico Nicola Guaglianone, il quale è l’autore del soggetto di Lo Chiamavano Jeeg Robot e delle sceneggiature dei corti che hai citato Basette (2006) e Tiger Boy (2012). Ci conosciamo da quando abbiamo 19 anni e l’intuizione è partita da lui. Quello che ho tentato di fare è dare più verità possibile a questa idea di Nicola. Io ho fatto tutti gli studi di cinema più impegnati… diciamo quasi da critico cinematografico. Quando sono dovuto andare a ripescare qualcosa che avesse un’autenticità per me da filmare… mi sono imbattuto in questa passione che poi condividevo con Nicola. Abbiamo fatto così Basette e con sorpresa ha avuto un successo importante. Abbiamo definito questo metodo “la formula”. Che poi è cambiata molto con il passare degli anni.

In che senso è cambiata?

Basette, diciamo, è un corto intellegibile solo da parte di chi conosce manga e anime di Lupin III

Basette, diciamo, è un corto intellegibile solo da parte di chi conosce manga e anime di Lupin III. Tiger Boy era meno citazionista e meno elitario da questo punto di vista. C’era in quel periodo una piccola realtà wrestling a Dragona (periferia a sud ovest di Roma, N.d.R.). Anzi… in realtà quando lo scrivemmo poi chiesi di tradurlo in spagnolo perché io volevo andare in Messico e farlo sulla lucha libre.

Come il film con Jack Black?
Esatto. Perché lì quella lotta ha un valore socialmente più forte e integrato dentro la comunità. Non ce la facemmo a girarlo in Messico e quindi il corto era tornato ad essere quell’idea di “formula” che aveva funzionato ai tempi di Basette e di cui parli tu: prendere un qualcosa di non italiano e provare a farlo diventare nostro. Come poi per Lo Chiamavano Jeeg Robot.

Ma quindi questa passione mi vuoi dire che è più di Nicola rispetto a te lanciato da due grandi della commedia italiana come i Vanzina Bros con Il Cielo in una Stanza nel 1999? E’ Guaglianone l’esterofilo dei due?
È una passione, diciamo, condivisa. Io amo di più il fumetto. La proposta della “formula” è partita da Nicola. Un giorno mi disse: “Pensa se facessimo Lupin III a Roma!”. E io gli risposi: “Sì però… in romano”. L’idea era tornare a quando eravamo piccoli ed imitavamo i nostri eroi con la nostra lingua. E’ stato tutto molto veloce e ci siamo capiti all’istante.

E Tor Bella Monaca (periferia a est di Roma oltre il Raccordo Anulare, N.d.R.) è sempre stato presente come luogo del racconto dentro la “formula”?
No. In principio per Basette doveva essere un altro luogo più borghese… ma poi alla fine affrontai Nicola e gli dissi: “Nico’ ma qui abbiamo un delinquente… e poi tu hai fatto l’assistente sociale a Tor Bella Monaca. Ma andiamo là e facciamolo là!”. Da quell’impulso… è nato tutto. Io riconosco il valore essenziale del ruolo di Nicola Guaglianone. Da Basette a Lo Chiamavano Jeeg Robot.

E Roberto Marchionni, in arte Menotti e appartenente alla cosiddetta seconda generazione del nuovo fumetto italiano figli di Pazienza, Tamburini, Liberatore, Scòzzari & Co., cosa ha portato dentro Lo Chiamavano Jeeg Robot come sceneggiatore?
Menotti nel film ha portato quella che chiamo una certa intelligibilità. L’abbiamo usato come cartina da tornasole per far risultare il tutto il meno astruso possibile allo spettatore. Per esempio… il protagonista non sa chi sia Jeeg Robot d’Acciaio. Non conosce minimamente il cartone anche se appartiene a una generazione che forse dovrebbe conoscerlo per forza. Se ci pensi… è un po’ strano ma alla fine non ci pensi poi molto durante la visione del film e a questo aspetto ha lavorato bene Menotti. Roberto ha poi lavorato benissimo anche sul personaggio di Alessia.

Ecco… entriamo nel vivo del film. Vogliamo parlare del personaggio meraviglioso di Alessia interpretato da Ilenia Pastorelli? Enzo Ceccotti la incontra e la sua vita cambia del tutto. Perché?
Perché solo Alessia è il vero supereroe. Perché solo Alessia lo può aiutare.

Più che un film su un supereroe… vuoi dirmi che è una love story?
Assolutamente sì. Hanno fatto un sondaggio e pare che per l’80% l’interesse verso Lo Chiamavano Jeeg Robot sia maschile… ma io vorrei che non fosse solo così. Alessia è essenziale nel film. Lei ed Enzo sono due dissociati. Quando lui la vede soffrire… si riconosce in lei. Claudio Santamaria interpreta un Enzo con una corazza di venti chili addosso, proprio letteralmente visto che abbiamo volutamente fatto ingrassare Claudio. Ma quella ciccia è per noi una corazza. E’ chiuso. Alessia lo aprirà. Alessia lo cambierà molto. Il film racconta un viaggio di un’identità che si solidifica grazie al rapporto con il femminile. C’è un’inquadratura di flashback da questo punto di vista per me essenziale. Questo viaggio di Enzo si scontrerà con quello di un altro disperato fragilissimo che piace tanto al pubblico perché è come Enzo ed Alessia. Ecco perché Fabio Cannizzaro in arte Zingaro sta risultando molto amato a tutte le proiezioni che abbiamo fatto del film.

Chi sono dunque i supereroi per te?

Io e Nicola questa idea di Cenerentola periferica l’avevamo già incontrata proprio a Tor Bella Monaca.

Quelli che hanno disabilità fisiche e psichiche ma nonostante tutto vanno avanti nella vita. Alessia è così. Non ha perso mai la vitalità nonostante la vita che ha avuto. Noi quelle cose le abbiamo viste. Io e Nicola questa idea di Cenerentola periferica l’avevamo già incontrata proprio a Tor Bella Monaca. Il personaggio di Alessia all’inizio era diverso ed era diverso anche il suo rapporto con Enzo. Poi l’idea della “formula” ha riportato tutto magicamente a posto rendendolo organico e coerente.

In Fabio Cannizzaro in arte Zingaro ho visto un omaggio a Zanardi di Andrea Pazienza. Nel taglio del viso di Luca Marinelli. Lì Menotti è intervenuto?
In fondo no. Lo Zingaro si è espanso paradossalmente grazie alla critica mossa al personaggio da parte di un attore durante la fase dei provini. In principio il villain vero era la camorrista Nunzia. Io diedi peso alla critica di quell’attore e allora sono tornato da Nicola Guaglianone e Menotti e ho chiesto loro di fondere tutto dentro lo Zingaro. A un certo punto era diventato veramente epico.

Vuoi dirmi che c’era addirittura di più rispetto a quanto già vediamo?
Sì… a un certo punto voleva entrare a Uomini e Donne e stava lì a fare la fila mentre nessuno prestava attenzione a lui perché non era abbastanza bello. Allora a un certo punto… perdeva la pazienza, superava la fila e andava a dare un cazzotto in bocca a Maria De Filippi. Poi si prendeva il trono e se lo portava al canile dove si trova il suo regno.

lo chiamavano jeeg robot

Grande scena…
Sì. Però poi abbiamo pensato che era troppo. In realtà abbiamo capito che la sua frustrazione doveva essere più legata al passato che non al presente. E allora l’abbiamo spinto verso il mondo della canzone e non solo del talk show. Abbiamo lavorato moltissimo io e Nicola al personaggio dello Zingaro.

E sul set? Guaglianone è presente sul set?
No, mai.

Anche ai tempi dei corti?
Sempre. Nicola non ama il set. E poi.. gli rompo così le scatole prima di arrivare sul set che, credimi, non c’è più bisogno della sua presenza perché mi è tutto assolutamente chiaro.

Ok. Abbiamo capito il peso della sceneggiatura e di Nicola nello specifico. E gli attori? Quanto hanno aggiunto gli attori?
Luca Marinelli ha aggiunto tantissimo. In sceneggiatura… lo Zingaro non era così esuberante. Devo essere sincero. Claudio Santamaria è stato invece molto organico e fedele a quanto era scritto per il suo Enzo. Ilenia nel ruolo di Alessia ha portato una verità che ci ha fortemente spiazzato. Certe scene di dissociazione… non erano così raffinate in scrittura rispetto a come poi lei le ha fatte.

Ok Gabriele… tu esci in sala nel momento in cui Deadpool sta andando bene e dimostra come Hollywood sappia fare sempre più bene il superhero movie. Cominciamo a parlare più nel dettaglio della via italiana al sottogenere? Quali sono le caratteristiche essenziali partendo dalla “formula”?
Devo ammettere che sapevo fino a un certo punto che la “formula” potesse funzionare. Mi spiego meglio: un conto è il sogno come Basette e il quasi sogno di Tiger Boy. Ma con Lo Chiamavano Jeeg Robot c’erano i superpoteri per davvero… e non sapevo proprio come rappresentarli facendo sospendere l’incredulità allo spettatore. L’inizio è allora volutamente lento per fare sì che lo spettatore pensi: “Ma è il solito film italiano… vogliono fare l’Unbreakable dei poteri”…

E poi?
E poi… boooom! Poi scoppia tutto. Già quando Marinelli comincia cantare Un’Emozione Da Poco di Anna Oxa… scoppia tutto e io spero che il pubblico a quel punto pensi: “Ma che cavolo sto guardando?”.

Qual è l’idea di base sul tono?

Sai che più ci penso… più penso che il film sia una classica commedia all’italiana?!

Ridere e piangere, ridere e piangere, ridere e piangere. Continuamente. Sai che più ci penso… più penso che il film sia una classica commedia all’italiana?! Un momento particolarmente lirico con Enzo Ceccotti può poi essere improvvisamente rotto da uno che bussa alla porta. Enzo fa: “Chi è?” e dall’altra parte: “Sto cazzo!”. Cose così. Se passa un’orda di zombi io non posso non pensare a Ricky Memphis che fa laconico: “Mortacci rega’”.

Questi siamo noi romani menefreghisti di fronte a tutto e tutti, no?
Questi siamo assolutamente noi. L’imitazione americana è impossibile ragazzi. Una volta assistetti a una lezione molto interessante di Giancarlo De Cataldo (grande scrittore noir italiano di Romanzo Criminale e Suburra, N.d.R.), il quale montò insieme due scene di processi cinematografici. Uno era da Codice d’Onore (1992) di Rob Reiner e uno era nostro da Divorzio all’Italiana (1961) di Pietro Germi. Era impressionante come in Codice d’Onore tutti si prendessero sul serio perché loro sono protestanti e credono molto al concetto di verità. Gli americani ci credono veramente. Noi italiani invece, proprio perché siamo cattolici, possiamo sempre ritrattare tutto e in fondo in fondo non crediamo mai a niente. E questo si vedeva anche nella scena del processo di Germi.

Ecco… poi Roma, capitale d’Italia e sede del Vaticano, è quello che tu dici dell’Italia cattolica… moltiplicato per dieci. O no?
Ma certo. Noi romani non crediamo a niente.

E questo poteva essere un bel problema dentro Lo Chiamavano Jeeg Robot, no?
Questo era IL problema. Come facciamo a farglielo credere? Ecco che allora ci serve un po’ Jeeg Robot d’Acciaio che però non dobbiamo mai dimenticare quanto sia in fondo solo un cartone animato colorato usato da una ragazza un po’ svitata per convincere Enzo di un qualcosa che forse già c’è in lui… e che può essere sì credibile anche per un italiano menefreghista.

Puoi essere più spcifico?
Certo. Parliamoci chiaro: se qualcuno non è diventato poi un vero criminale pericoloso… una ragione ci potrà essere no? Magari legata al suo carattere? E se in fondo non potesse delinquere del tutto? E’ il contesto sociale, anche, che fa di Enzo quello che potrebbe diventare.

Tor Bella Monaca?
Nicola Gualianone può insistere quanto vuole sul fatto che abbiamo fatto puro intrattenimento e io sono d’accordo con lui. Allo stesso tempo penso che ci sia anche qualcosa di più nel senso… Nicola ha lavorato lì come assistente sociale e ci ha fatto il servizio civile. Mio padre ha lavorato lì. Io ho fatto teatro lì e con Nicola, nel nostro piccolo, due corti come Basette e Tiger Boy. Conosciamo la difficoltà di quel contesto e l’idea della “svorta” criminale che sogna un tipo come lo Zingaro. E conosciamo anche come certo cinema italiano tratta la periferia e cioè: “Oh mio Dio… poveracci”. La camera che segue stretta i personaggi, nessun totale, la musica triste e tutti che piangono. Noi volevamo fare l’opposto. Alessia quindi è un arcobaleno. Una frattura certo… ma anche un arcobaleno. Parliamo di superpoteri sì… ma abbiamo cercato di raccontare il contesto nel modo più onesto possibile.

Parliamo dell’idea di citare la bomba della mafia non esplosa allo Stadio Olimpico nell’ottobre 1993? Perché una scelta così originale e interessante in sceneggiatura?
Volevo raccontare qualcosa di importante. Terrorismo… bombe… e devo dire che lì Menotti è stato determinante. Eravamo partiti da la Stazione Termini… e poi ci siamo un po’ allargati.

Noto nel film una rassegnazione politica piuttosto pesante tipica della nostra generazione distrutta psicologicamente e diventata nichilista dopo gli ultimi 20 anni italiani allucinanti. Nel film lo Stato è tranquillamente attaccato. Scoppiano delle bombe. Nessuno sembra né preoccupato né teso. Mi sbaglio?

Noi siamo molto traumatizzati come generazione e il tentativo era quindi quello di far succedere qualcosa di importante

No. E’ vero che c’è una necessità di proteggerci e questo ci ha fatto diventare completamente nichilisti. Noi siamo molto traumatizzati come generazione e il tentativo era quindi quello di far succedere qualcosa di importante che facesse fare al protagonista di questa disgraziata generazione, Enzo, qualcosa allora di molto, molto importante.

Quindi c’è anche un discorso generazionale in Enzo?
Ma sì certo… ci siamo chiesti: chi più di tutti può fregarsene di tutto? Ma lui… cioè noi: Enzo Ceccotti. Io capisco Enzo. E’ un puro a suo modo ed è anche buono. Abbiamo deciso di farlo compiere ad Enzo questo cambiamento perché in fondo… speriamo che ci sia poi alla fine un piccolo cambiamento. Sì… ci siamo raccontati. Abbiamo voluto fare un film contro il nichilismo. Se tu ami… non puoi più non essere sensibile agli altri.

Enzo è anche un romano che non abita il centro di Roma e che dovrà tornare al centro di Roma e dei romani? E’ uno straniero nella sua stessa città?
Io lo vedo come un americano a Roma coi superpoteri.

A me ha fatto più pensare a Brutti, sporchi e cattivi coi superpoteri…
Nicola Guaglianone adora quel film di Scola.

Ma tu Gabriele… ci credi nel cinema dei superpoteri?
No. A me quei film lì… mi rompono un po’ i coglioni. Scusate ma sono sincero. Io son un fan dell’Hulk di Ang Lee. Quando lo vedo, piango sempre.

Ma tu come ti poni nei confronti della cultura americana?
Posso avere la presunzione di dire che la conosco bene. Mia nonna è cresciuta nel New Jersey e poi è tornata in Italia. Era uno degli emigranti italiani in Usa perché il mio bisnonno faceva l’appaltatore per Chrysler Building. Lui cascò in una vasca gelata e morì negli Stati Uniti di broncopolmonite. Mia nonna dovette poi tornare in provincia di Varese. Poi… ho fatto la scuola americana e ho fatto parte dell’università negli Stati Uniti. Mia sorella vive da 20 anni là, a New York, ed ha un figlio. Anche mio padre ha lavorato là. Tornando al cinema dunque… so quindi che quando si cerca di emulare una realtà che non è nostra… si gira in “doppiaggese” ed è una cosa che proprio non sopporto.

E quindi la scelta del dialetto romano?
Esatto. Non solo lingua italiana ma più romano possibile. “Romanaccio”, appunto.

In fondo Leone giocava con uno spazio astratto come il western rileggendolo in chiave mitica. Qui il discorso è diverso, no?
Lui andava in quella dimensione che era di tutti e di nessuno che lui chiamava “il gioco” dove si poteva sbizzarrire e divertire. Però posso dirti una cosa?

Prego…
Io e Nicola diciamo sempre questa cosa… lo spaghetti western di Leone… è romano! Anzi “romanaccio”. Ma dai… ma tu ce lo vedi uno che risponde alla domanda: “Come è stata la tua infanzia?” dicendo semplicemente: “Corta”. Questo è humour romano laconico, dai. Questo è Marco Giallini. Quei western sono molto romani. Quei tempi li abbiamo provati e riprovati anche Jeeg.

Qual è il tuo film del cuore Gabriele?
Oldboy (2003) di Park Chan-wook. Se facessi un film così, potrei anche smettere il giorno dopo.

E in Italia?
Marco Risi è un regista che adoro e che ha sofferto tanto dopo L’Ultimo Capodanno (1998), tratto dal lavoro di un altro artista per me fondamentale come Niccolò Ammaniti. Quando lessi Branchie di Ammaniti a vent’anni… pensai veramente… si può fare.

Perché l’amore per Risi?
Ha cercato di prendere la grande spettacolarità degli americani portandola da noi. Marco Risi mi ha insegnato questo. Noi possiamo raccontare anche un drago. Anche in Italia possiamo farlo.

A livello produttivo… c’è questo tipo di consapevolezza?

I produttori mi hanno chiamato e mi hanno detto: “Che vuoi fare in futuro? Hai carta bianca”

Penso che lo stiano capendo. Lo sento. I produttori mi hanno chiamato e mi hanno detto: “Che vuoi fare in futuro? Hai carta bianca”.

E se lunedì gli incassi del film non sono esaltanti?
Se il film va male… invece non si fa niente. Funziona così.

E questo come ti fa sentire?
Agitatissimo. E’ il motivo per cui ti ho detto all’inizio dell’intervista che sono nervosissimo. Io penso che il film sia buono. Fine. E’ imperfetto e tante cose non funzionano, ci mancherebbe. Capisco il momento… e sono teso. Posso assicurarti che farò almeno un altro film o anche due in questa direzione qua. Ma se questa cosa non funziona… va bene così. Che ti devo dire? Tornando all’Italia… mi piacerebbe dirti quanto amo Claudio Caligari, se fosse possibile.

Ma prego…
Caligari è il più grande di tutti. Quando vidi L’Odore Della Notte (1998) pensai… si può fare. Un’altra epifania come per quanto riguarda la letteratura di Ammaniti. Quel film è Scorsese a Roma e non stona mai. Ci sono momenti da Taxi Driver pazzeschi. Carrellate in avanti meravigliose. E’ come se avesse spettacolarizzato il suo capolavoro Amore Tossico (1983) grazie ad attori professionisti. Io lo citai in Basette con uno scambio di battute epocali. Nicola Guaglianone ha lavorato con Caligari su una sceneggiatura poi non prodotta dal titolo Io Rido Da Sola ispirata alla vita tormentata della Daniela Rocca di Divorzio all’Italiana. Caligari voleva raccontare lo schifo reale della vita dello spettacolo italiano dietro il periodo alla Dolce Vita. Il film non si fece mai perché Caligari rifiutò l’attrice che gli proposero. Mi indigna sentire dire ora che è morto quanto fosse… di gusti difficili. Lui non era intransigente ma si proteggeva. Tutelava il suo lavoro. Nicola era esaltato dal fatto di poter lavorare con lui. La sera lo sentivo molto eccitato e non faceva altro che ripetermi: “Gabriele… questo è un vero intellettuale. E’ un puro”.

Lo hai mai conosciuto?
L’ho incontrato due volte a casa di Valerio Mastandrea (protagonista de L’Odore Della Notte e produttore del film postumo di Caligari Non Essere Cattivo, N.d.R.). Era una persona coltissima e con un amore per il cinema totale. Io ho girato un anno prima di Non Essere Cattivo e poi lui dopo ha preso Luca Marinelli nel ruolo del coatto nel suo film. All’inizio ero un po’ geloso perché Marinelli in quel modo lì coatto non lo aveva ancora proposto al cinema nessuno… poi dopo ho pensato che qualcosa forse avevo capito di cinema visto che Luca… era stato scelto anche dal Maestro. Su questo… mi piacerebbe chiudere l’intervista.

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ATTENZIONE: DA QUI IN AVANTI SPOILER SUL FILM E SULL’EVENTUALE SEQUEL!

 

Posso farti una domanda cattiva che non si dovrebbe mai fare a un regista?
Prego.

Quel fotogramma con la testa mozzata di Fabio Cannizzaro sul ponte alla fine… sai che se tu non lo avessi montato… avrebbe potuto permettere a quello che diventerà sicuramente un beniamino del pubblico… di poter tornare in un ipotetico sequel?
Intanto posso dire che una testa mozzata… potrebbe anche parlare. No, no, scherzo ragazzi! Allora… abbiamo fatto una prova senza quel fotogramma.

E quindi?
Ho pensato ad Enzo. Ho pensato alla sua soddisfazione. C’era una soddisfazione contenuta senza quel fotogramma. Quel fotogramma invece… dà piena soddisfazione. Riempie.

Quindi mi stai dicendo che Enzo se lo merita? E’ questo il motivo della scelta?
Assolutamente sì. Le ipotesi di sequel, che andranno ovviamente verificate in base all’accoglienza che il pubblico italiano darà al film, noi le stiamo già sviluppando. Un nuovo supercattivo della madonna… ce l’abbiamo già…

E’ italiano?
Assolutamente. E’ romano.

Pariolino (Parioli è un quartiere ricco e piuttosto snob di Roma nord, N.d.R.)?
Sarebbe interessante. Ci piace l’originalità. Non ti voglio dire niente ma… qualche presupposto superfico ci sta’.

L’idea delle sequenze allo Stadio Olimpico di chi sono state?
Di Menotti. Lui è un tifoso sfegatato. Peccato che avesse messo Curva Nord (è quella della Lazio, N.d.R.).

E tu?
Io gli ho detto: “Curva Nord???? Curva Sud vorrai dire!”.

Hai messo Enzo posizionato molto sulla Roma…
C’era addirittura una battuta che doveva coinvolgere Francesco Totti. Nella vecchissima sceneggiatura… Enzo manifestava il suo amore per Totti con una battuta: “Di Capitano ce ne è uno solo”. Poi mi sono autocensurato. Era un’idea di Nicola.

 

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