Si chiama Cristina Fanti e vive e lavora a Los Angeles. Noi l’abbiamo conosciuta al Comic-Con di San Diego: alcuni di voi la ricorderanno nei nostri videoblog in coda per la sala H.

Cristina si è trasferita in California non inseguire un sogno, ma per perseguire un obiettivo: lavorare a Hollywood. Appena atterrata nella Città degli Angeli si è rimboccata le maniche, e ora fa la script supervisor e la produttrice. Le abbiamo chiesto di raccontarci come si intraprende questo percorso, quanto è complicato e quanto è soddisfacente.

Qual è stato il tuo percorso di studi in Italia?
Io sono una di quelli che il cinema lo ha studiato, anche se in effetti non credo sia la strada ideale. Ho fatto il liceo classico, ma solo perché non ero a conoscenza dell’esistenza dell’istituto Rossellini di Roma, poi ho preso la laurea triennale al DAMS e ho proseguito con un corso che prometteva di essere più pratico di quanto fatto all’università in una scuola privata di Cinecittà. Ma se si e più fortunati di me e si riesce ad iniziare a frequentare i set, il cinema lo si impara anche da soli, osservando chi fa il mestiere, guardando film e leggendo quei pochi libri che valgono veramente la pena.

Quando hai deciso di trasferirti a Los Angeles e perché?
Non sapevo bene come e quando ma ho sempre saputo che un giorno mi sarei spostata a Los Angeles; era un sogno nel cassetto che un po’ sbandieravo e un po’ tenevo per me, in base ai vari periodi della vita che stavo attraversando. Sono cresciuta guardando film Americani e consideravo qualsiasi cosa all’infuori di Hollywood un compromesso. La fatidica decisione l’ho presa quando ho finito il corso a Cinecittà e ho provato a cominciare a lavorare nel cinema in Italia. Non avendo una famiglia inserita nel settore, nonostante vari tentativi non sono riuscita neanche a essere presa come “schiava”, e siccome l’idea di continuare a studiare per ingannare il tempo mi nauseava, sono salita su un aereo.

Cosa hai fatto appena sei atterrata in California?
La settimana successiva ho cominciato a frequentare un breve ma intenso corso di preparazione per diventare Script Supervisor (segretaria d’edizione), un mestiere che mi affascinava da qualche anno ma che non avevo avuto la possibilità di esplorare in Italia, perché nessuno lo insegna.

Qual è stato il tuo primo lavoro nel settore negli USA, e cosa hai fatto di preciso?
La mia insegnante ha cominciato a inoltrare a tutti i ragazzi del corso delle email di piccole produzioni studentesche o film a bassissimo budget che cercavano Script Supervisor volontarie. L’ultimo giorno di corso verso le 18 mi e arrivata la mail di una produttrice che cercava di coprire la posizione per un corto che sarebbe iniziato l’indomani alle 8 del mattino nel deserto, a un’oretta da Los Angeles. Per qualche minuto ho pensato che avrei ignorato la mail, anzi che avrei preferito non averla mai aperta, che non ero pronta; ma poi ho seguito il grillo parlante, mi sono candidata per il lavoro e l’ho avuto. Ho iniziato il giorno dopo, gratuitamente, sul set di un corto ispirato al fumetto Y The Last Man, pieno di azione ed effetti speciali, che è ancora oggi visibile sul canale Youtube di IGN. E ho avuto la conferma che mi trovavo nel posto giusto al momento giusto.

Quanto è faticoso per un italiano inserirsi in questo ambiente senza avere conoscenti o contatti particolari?
Il cinema in tutto il mondo è un mestiere di contatti e passa parola. La differenza negli Stati Uniti è che il tuo network di conoscenze lo puoi costruire onestamente e il tuo nome viene fatto quanto più lavori e quanto più dimostri di essere bravo, non come in Italia quanto più sei raccomandato. Dunque la risposta è: non è più o meno difficile che per un americano, basta essere validi e non riposarsi mai.

12516183_10153554352333123_1474460976_nSei stata script supervisor in moltissimi progetti. Ci spieghi che tipo di mansione è di preciso, e qual è stato il progetto più soddisfacente?
Gli Script Supervisor sono la memoria del film, conoscono la sceneggiatura a mena dito e durante le riprese, che nella maggior parte dei casi avvengono in ordine sparso, si assicurano che non vengano commessi errori, ne’ narrativi (suggeriamo le battute corrette agli attori nel momento in cui ne sbaglino alcune parti o li aiutiamo a ripassare le scene) ne’ fattuali/tecnici (che il trucco, parrucco e costumi degli attori, la scenografia, gli oggetti di scena, la luce o la posizione della macchina da presa non cambino da una scena all’altra a meno che non espressamente richiesto – se questo avvenisse, in montaggio, una volta accostate scene girate a settimane di distanza tra loro, provocherebbe un senso di spaesamento per il pubblico). Questa in gergo si chiama “continuità’”. Inoltre ci occupiamo di registrare tutto ciò che succede sul set, quanti e quali inquadrature siano state realizzate, quali siano le migliori per il regista in base ai commenti fatti durante le riprese (sediamo a fianco a loro al monitor per questo motivo, e diventiamo cosi un po’ i loro confidenti e motivatori) e quali da non utilizzare e per quale motivo. Questa “bibbia” da noi prodotta verrà consultata come guida dal montatore e dal regista in sala di montaggio.
Di solito la domanda successiva è: ma allora è colpa tua quando i capelli dell’attrice si spostano! Beh, dipende. E mi fa piacere sempre che si sappia, quando alcuni errori sopravvivono al montaggio di un film e finiscono nella copia finale, particolari che sono sempre divertenti da scovare, non è necessariamente a causa di uno script supervisor maldestro. A volte il regista e il montatore ricevono la nota di non utilizzare un determinato ciak per via della presenza di un errore, ma scelgono di ignorarla per dare risalto, nel maggior numero dei casi, a una performance di particolare rilievo dell’attore presente solo in quel determinato ciak.
Uno dei progetti per me più soddisfacenti come Script Supervisor, anche se un’esperienza breve, è stato in assoluto partecipare all’episodio di Natale della seconda stagione della serie televisiva The Millers. Ero una grande ammiratrice dello show ed è stato divertentissimo ritrovarmi in un mondo che conoscevo benissimo tramite lo schermo televisivo. Massimo livello fangirl con Will Arnett almeno un paio di volte al giorno!

Hai qualche aneddoto particolare di quando hai lavorato a Mike & Molly?
Mi sono trovata sul set di Mike & Molly dopo solo un anno dallo sbarco in America. Non ero una fan dello show ma ero ben conscia della magnitudine dell’esperienza. Mi sentivo una piccola spaesata Alice in una grande Wonderland. Un pomeriggio nella cucina del teatro di posa stavo cercando di farmi un caffè, ma essendo nuova fra i tanti cassetti non sapevo dove trovare le cialde per la macchina, lo zucchero e le tazze. Billy Gardell è entrato in quel momento, anche lui per un caffè, mi ha mostrato dove trovare tutto e mi ha fatto la mia prima tazza della stagione. E’ stato un momento piccolo e forse poco rilevante professionalmente, ma per me ha significato sentirmi inclusa in un mondo che fino ad allora avevo appassionatamente ammirato da fuori, la persona più fortunata del mondo.

Anche se hai lavorato molto come script supervisor, la tua passione è la produzione. Come si fa a diventare produttori negli USA?
Devo dire che il lavoro di Script Supervisor è un lavoro che adoro. Ne sono smodatamente innamorata e mi rappresenta moltissimo. C’è che in questo mestiere non esiste una vera possibilità di carriera, almeno per come la intendo io. Si possono fare film sempre più grandi con registi sempre più grandi, e questo è uno stimolo enorme, ma alla fine la tua mansione resta sempre la stessa, il divertimento aumenta ma la crescita non è molta. E poi come Script Supervisor non si può vincere un Oscar, come produttore sì, e io ne voglio vincere almeno uno!
Ti posso parlare di come ho fatto io, che è stato lavorare bene per 4 anni e costruire una rete di contatti che quando è arrivato il momento giusto ho chiamato a raccolta per mettere insieme i miei cast e troupe. Poi ho richiesto una ventina di carte di credito e mi sono fatta un po’ di debiti con le banche. Un’altra cosa che a differenza dell’Italia funziona, ma questa è una lunga storia per un’altra volta.

Quando hai prodotto il tuo primo corto negli USA? Ce ne puoi parlare?
Nel luglio del 2013 il mio partner e socio Valerio Esposito ha adattato un episodio della serie web “Le cose brutte”, di grande successo in Italia, per un esperimento creativo, cimentarsi con la commedia, e produttivo, vedere dove riuscivamo ad arrivare da soli. Abbiamo girato un giorno in casa nostra con degli attori pazzeschi: Milo Cawthorne, un talento sorprendente, noto al pubblico come il Power Ranger verde nella serie RPM, Fleur Saville, una star della TV neo zelandese, ed Eddie Rouse, che ha recitato al fianco di Denzel Washington in American Gangster e con Robert De Niro in Being Flynn. E una troupe di solidi professionisti, conosciuti nel tempo su vari altri lavori. Un budget microscopico ma tanta voglia di mettersi in gioco. Il corto ha partecipato a 15 festival in tutto il mondo e ha ottenuto vari riconoscimenti. Questo esperimento ci ha convinti sempre più che con le intenzioni giuste qui in America ce la puoi fare. E’ nata la nostra società e abbiamo cominciato a pensare al progetto successivo.

Hai anche lavorato a un lungometraggio, l’anno scorso, con Tom Sizemore. Come sei riuscita a realizzare questo progetto? Quanto è stato complesso?
Innanzitutto non ci sono riuscita da sola. Il traino di tutta l’operazione è stato senz’altro Tom. Senza la sua devozione al progetto e totale fiducia in due giovani immigrati del bel paese non saremmo riusciti a costruire il nostro castello. E ad attirare altri attori di grande calibro come Vincent Pastore dei Sopranos, Christina Bennett Lind di House of Cards e Kiowa Gordon della saga di Twilight. Subito dietro Tom ci sono tutti i meravigliosi artisti che hanno voluto prendere parte al progetto e ci hanno sostenuto con il loro talento e il loro instancabile entusiasmo, ma anche laddove non fosse dovuto, un incoraggiamento a fine giornata, un sorriso, un piatto di pasta, anche scondita, ma fatta con affetto alla fine di una lunga giornata di lavoro, o una bella moka fumante di mattina. Senza esagerazioni degli angeli.
Logisticamente è stato un pochino complesso essere un gruppo minuscolo in produzione e organizzare il tutto avendo persone, fra cast e troupe, che sono giunte nel deserto della California da tutto il mondo. La pre-produzione è durata praticamente 4 mesi. Per me in particolare la sfida più grande è stata stipulare i contratti con alcuni degli agenti più importanti d’America, il sindacato Hollywoodiano degli attori (SAG), gestire l’affitto del materiale tecnico, il catering, la parte commerciale. Tutte cose che non avevo mai fatto e tutte cose che ho imparato facendo, ancora una volta grazie ai preziosi consigli dei vari amici e contatti nell’industria cinematografica che mi hanno spifferato i loro segreti. Per non parlare dei mille imprevisti fra voli cancellati, intralci logistici, mezzi di scena in panne, persone che ci hanno abbandonato a tre giorni dall’inizio delle riprese. Non sono certa di poter ricavare una massima su come si possa affrontare un film così. So che io l’ho fatto come si fa con un tuffo da una scogliera. Mi sono buttata imprecando. Non sono sicura sia il metodo più ortodosso, ma per quello che vale noi siamo usciti fuori dall’altro lato vivi, un po’ acciaccati ma vittoriosi. Con un bel po’ di debiti ma con un film meraviglioso che sicuramente prima della fine dell’anno vedrete. Il film si chiama Calico Skies.

E quali sono i tuoi prossimi progetti?
Attualmente la mia società ha in cantiere tre sceneggiature. Proprio in questi giorni stiamo iniziando il casting di quella che sarà la nostra prossima avventura, un thriller psicologico con una pungente protagonista femminile di cui sono molto fiera. Vorremmo iniziare a girare all’inizio del 2017. Nel frattempo il mese prossimo torno sulla seconda stagione del telefilm dove attualmente lavoro come Script Supervisor, Game Shakers, una divertentissima sit com per ragazzi che va in onda anche in Italia su Teen Nick, canale 620 di Sky. È la mia casa fra un mal di testa produttivo e l’altro, un impegno importante che mi tiene sana e ancorata alla realtà e ad una professione che amo continuare ad esercitare nella quotidianità, perché alla fine io non so stare senza sporcarmi le mani sui set.

Che consigli daresti a un giovane italiano che vuole intraprendere il tuo stesso percorso negli Stati Uniti?
Partire. Aspettarsi il peggio. Ma! Non lasciarsi scoraggiare. Lavorare come se non ci fosse domani. Il difetto peggiore degli italiani che vedo a Los Angeles è pensare di essere “arrivati” solo perché si è giunti fisicamente qui, e perdersi in quella frizzante sensazione di geolocalizzarsi sui social media a Malibu. Ma la verità è che LA non è l’Italia. Qui premia il sudore, non le chiacchiere.

Quali sono gli aspetti che preferisci di lavorare nel mondo dell’intrattenimento negli USA, e quelli che proprio non sopporti?
Quello che preferisco in assoluto è sapere che tutto può succedere. Qui ci sono i più grandi e si muovono le cose più importanti. Con un po’ di fortuna e tanta perseveranza non ci sono limiti. Sembrerà una banalità, ma la terra delle opportunità non è un eufemismo. Quello che mi rattrista di più è che è difficile trovare persone autentiche, o almeno che siano autenticamente interessate a te. Qui tutti hanno un’agenda, si sono trasferiti in città inseguendo un sogno e sono concentrati su quello, e su se stessi. È difficile approfondire relazioni, e fin troppo spesso conta solo quello che fai e non come sei. L’altro lato della medaglia, ovviamente. In cinque anni a Los Angeles le persone su cui posso contare si contano sulle dita di una mano e mezza.

E qual è stato il momento più soddisfacente della tua carriera?
Senza dubbio il primo ciak di Calico Skies. Non ero presente sul set, come in molte altre occasioni durante le riprese. Come produttore extra indipendente ero spesso in giro per commissioni, o chiusa in una stanzetta a correggere bozze di contratti. In quell’occasione specifica ero in macchina e tornavo dal supermercato con un carico d’acqua, mi pare. Mi è arrivato un video dalla nostra truccatrice, registrato qualche istante prima intorno al monitor durante il primo ciak. Non avevo abbastanza campo per vederlo, dunque ho potuto solo immaginare quello che succedeva, dal particolare sfocato del primo fotogramma. Ho pianto, ho guidato, e ho mandato un messaggio vocale a mia mamma: “Ciao mammina, stai tranquilla va tutto bene, piango di gioia, lo stiamo davvero facendo, il nostro film.”

Foto di copertina: l’attore Luigi Iacuzio, Cristina Fanti, Valerio Esposito, l’attrice Charlotte De Bruyne e Tom Sizemore durante le riprese di Calico

Classifiche consigliate