Da come era cominciata la sua carriera, con il cinema indipendente degli anni ‘90, quello rivoluzionario che è riuscito ad affermarsi tanto quanto quello degli studios, non sembrava che Antoine Fuqua potesse arrivare a qualcosa come I Magnifici 7. Non sembrava che il soggetto potesse essere d’interesse per qualcuno come lui, né che la storia potesse calzargli o ancora che potesse essere raccontata come intende fare lui.

Molte cose però sono cambiate specie negli ultimi anni, specie grazie alla maniera in cui Tarantino ha riportato in auge il genere. Anche se poi a Fuqua non è che piaccia molto lo stile di Tarantino…

Che rapporto hai con l’originale dell’originale: I Sette Samurai?

ANTOINE FUQUA: Mi ha sempre stupito, specie la grande battaglia finale. Mi sono sempre chiesto quanto ci fosse voluto per girarla… Da quel film mi piacerebbe prendere un po’ dello humor e dei personaggi.

Quanto influisce un regista come te su un cast così grande in un film così importante?

AF: Diciamo che ho avuto modo di dire la mia. Denzel Washington e Ethan Hawke [la coppia di Training Day, il film che l’ha reso famoso, ndr.] li ho voluti io. Con Vincent D’Onofrio sono molto amico, mentre Chris Pratt è un attore che in questo momento ha offerte da tutti quanti ma è un grande amante del western, per questo ha scelto noi. Bin Jun Lee, o come lo chiamo io BJ, l’avevo visto in A Bittersweet Life e mi piaceva la sua coolness, stesso vale per Manuel Vasquez. Mentre per il nativo americano avevo bisogno di un ragazzo in grado di fare molte cose, sono stato così fortunato da trovarne uno anche bravo a recitare.

Prima non si vedevano mai afroamericani nel West, ora sembra che Django Unchained li abbia sdoganati.

AF: In questo film non ci sono solo cowboy neri ma cowboy da tutto il mondo, è l’unico modo per essere onesti rispetto a quel che era quell’epoca. In più mi piace l’idea che tutti insieme combattono per una causa comune. Penso sia una maniera migliore di presentare il mondo.
Considera che inserire anche gli afroamericani porta verità al western, perché i veri cowboy erano neri. Molti film di John Wayne come Sentieri Selvaggi o Impiccalo Più In Alto [Fuqua deve essersi confuso in quanto quest’ultimo è un western con Clint Eastwood ndr] si basavano su storie di sceriffi di colore e ce n’erano tanti. Il west non era il west che Hollywood ha raccontato, c’era gente di molte razze, era l’America: persone che vengono da ovunque per il loro sogno. Hollywood aveva i pregiudizi del tempo e i filmmaker e gli attori hanno assecondato questa mentalità, perché quelli erano gli anni.
Tutti i generi hanno un’evoluzione: John Ford ha fatto grandi film con John Wayne ed erano tutti bianchi, poi è arrivato un film duro come Sentieri Selvaggi, e ancora il periodo di Il Mucchio Selvaggio e ancora il west di Clint Eastwood, in cui un eroe addirittura stupra una donna. Tutto cambia. Il modo in cui vediamo il West riflette i cambiamenti del nostro mondo.

Però è impossibile non dire che sia stato il west di Tarantino a rimettere in circolo quest’idea di una visione multirazziale di quell’epoca.

AF: Non commento l’operato di altri registi, può fare quello che vuole.
La sua visione del west mi piace, Quentin porta sempre con sè il suo mondo, qualsiasi cosa faccia, il che è buon per lui. Io porto quel che ho con me ed è diverso.

Che detto in parole povere vuol dire…?

AF: Io non devo dire “negro” 400 volte in un film, non ne ho bisogno, se lui invece ne ha bisogno non ho nulla da criticargli. Siamo buoni amici, sono stato uno dei primi a cui ha voluto mostrare Django Unchained e gli ho detto che ne penso, questo per dire che non ce l’ho con lui. Quentin dipinge quello che vuole dipingere, io semplicemente non ho bisogno di fare le cose come lui.
Intendiamoci, non mi sento offeso dalle volte che mette in bocca la parola “negro” ai suoi personaggi, mi sentirei offeso solo se mi ci chiamasse direttamente, ma non lo farebbe mai. Come artista lui esprime quello che serve al suo film e io non ho problemi con la loro forma d’espressione, è semmai compito del pubblico giudicare il film. Questo è il bello dei film, puoi farci tutto e avere qualsiasi prospettiva tu voglia, se il pubblico lo ama tutto bene, se lo odiano e non lo vanno a vedere hai imparato qualcosa di nuovo.

Ad ogni modo un Western da un regista come te è qualcosa che non ci aspettavamo, da dove viene questo desiderio?

AF: Il progetto era nell’aria ma non avevo davvero il coraggio di affrontarlo. Poi è successa una cosa, stavo lavorando a Southpaw e andai a casa di James Horner a sentire un po’ della colonna sonora che aveva composto. James mi chiese come andava con I Magnifici 7, ma a quel punto io avevo solo lamentele da raccontare per la difficoltà di mettere in piedi il film e trovare finanziamenti, allora lui mi disse: “Devi trovare un modo di fare il remake di I Sette Samurai. Stai zitto e fallo, non avrai mai un’altra possibilità di fare un western!” e aveva ragione. Quando ho lasciato casa sua ho pensato alla vita e al fatto che dovevo fare questo film. Voglio fare questa cosa a cui penso da quando sono bambino: un western.

Beh il periodo sembra propizio per il ritorno del western

AF: Lo spero. Ma il mio obiettivo rimane avere successo raccontando un west in cui ci sono molte razze. La storia è più ampia di quella che abbiamo raccontato fino ad ora. Il motivo per cui molti western non vanno bene è che sono tutti uguali, tutti i bianchi l’hanno fatto, quanti bianchi ancora possiamo vedere? E se questo west multirazziale funziona, allora possiamo aprirlo a qualsiasi gruppo in precedenza tenuto fuori, come le donne.

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