La La Land di Damien Chazelle ad aprire, I Magnifici 7 di Fuqua a chiudere. Il film americano di Pablo Larrain (Jackie) e la serie americana di Paolo Sorrentino (Young Pope), ma ancora il primo film con delle star di quel talento che è Ana Lily Amirpour (The Bad Batch), il ritorno di Mel Gibson con un filmone di guerra (Hacksaw Ridge), il melodrammone di Cianfrance con Fassbender (La Luce tra gli Oceani) e il film di fantascienza di Villeneuve prima di Blade Runner 2 (Arrival). Ma pure le stranezze come il documentario sull’origine di un po’ tutto di Terrence Malick (Voyage of Time) e gli Animali Notturni dello stilista diventato regista Tom Ford fino anche ad un documentario di Andrew Dominik (One More Time With Feeling), quella che sta per partire è la Venezia più americana di sempre e questo senza certo aver ceduto al cinema di incasso scriteriato. Il cinema più difficile da ottenere (per star, capitali, esigenze delle produzioni e desiderio degli altri festival) quest’autunno è tutto a Venezia esclusi pochi grossi nomi (su tutti Scorsese con Silence che pare sia in parola da mesi per New York).

Qualcosa è cambiato alla Mostra del Cinema di Venezia. Lo abbiamo visto nel programma e poi ne abbiamo avuto conferma nella nostra intervista ad Alberto Barbera, in cui il direttore ha spiegato per filo e per segno come mai quest’anno la selezione sia forse la migliore di tutta la sua gestione (e non solo per la parte statunitense).

Cosa sia successo è un misto di coincidenze fortuite (ci sono ogni anno, valgono per tutti i festival) e di un lavoro partito qualche anno fa, almeno da quando la gestione è passata ad Alberto Barbera. La causa più rinomata è il fatto che per tre anni di fila il vincitore dell’Oscar più importante (e in alcuni casi di molti altri) abbia fatto il suo debutto a Venezia o, come si dice in gergo, abbia iniziato la sua corsa alla stagione dei premi da lì. Questo fa sì che il Lido si sia accreditato come il luogo in cui andare a vedere per primi i film più importanti della stagione, arrivare per tempo su quello che sarà il titolone dell’annata. Vale per la stampa (straniera) come per i distributori (che lo vogliono acquistare), i media e il business, un coppia in cui i secondi contano infinitamente di più.

Questo, in poche parole, ha cambiato la parte autunnale di quello che viene chiamato “il sistema dei festival” e l’ha notato anche l’Hollywood Reporter.

Quella che sta per partire è la Venezia più americana di sempre e questo senza certo aver ceduto al cinema di incasso scriteriato

Quel che accadeva prima era che di questi tempi (che sono proprio quelli giusti per iniziare a pensare alla corsa agli Oscar) i film statunitensi si dividevano tra Venezia e Toronto (spesso sovrapposto quest’anno in partenza l’8, mentre Venezia finisce il 10) con la carta matta di Telluride, festival di soli tre giorni che ha luogo in mezzo a Venezia (dal 2 al 5 Settembre) in un paesino sulle montagne, un evento piccolo e ristretto (basterebbe vedere il sito internet per capirne la dimensione) in cui però vanno tutti i nomi che contano del mondo dell’industria hollywoodiana e quindi molto spesso mostra i film più grandi prima di tutti, anche se non l’aveva annunciato. È una violazione di accordi che sembra essersi stabilita come prassi, come se Telluride potesse un po’ tutto bene o male, perché a visitarlo sono le stesse persone che concedono le anteprime ai festival e quindi tra di loro fanno quel che credono.

In molti si sono chiesti come sia stato possibile per Venezia infilare una simile tripletta, un’impresa che qualunque festival desidererebbe. Di certo esiste un margine di fortuna, lo ammette sempre lo stesso Barbera, perché nessuno davvero può sapere se un certo film andrà o meno agli Oscar (figuriamoci vincere!), in più la parte del comitato di selezione veneziano più vicina al cinema americano non è cambiata rispetto alle gestioni precedenti. Di certo il desiderio di Barbera di ridurre i titoli della mostra rispetto a Mueller (quindi non prendere di tutto ma fare una selezione più elevata) e lavorare su un terreno ibrido tra autorialismo spinto e cinema popolare (un film come Philomena in concorso non sarebbe mai capitato solo 10 anni fa) ha aiutato. Se Birdman sarebbe stato preso in qualunque gestione, forse Il Caso Spotlight avrebbe faticato di più e Gravity sarebbe stato trattato con maggiore sufficienza. Inoltre bisogna ricordare che non sempre è facile comprendere quando un film popolare possa aspirare a grandi domani, è noto che il Festival del Film di Roma rifiutò di prendere in considerazione la selezione di Il Discorso del Re. Decisioni così fanno la differenza.

La vera domanda a questo punto è se ciò che è successo abbia una qualche influenza sulla “competizione” con il festival di Cannes.

Di certo nessuno compete con Cannes ora come ora, il festival francese è la sede del mercato più importante dell’anno, è un appuntamento fondamentale per il business del cinema di tutto il mondo. Soprattutto per la sua collocazione è fuori dalla questione Oscar, Mad Max: Fury Road è uno dei pochi casi di film passato a Cannes e poi finito a prendere statuette, di solito chi vuole competere esce in patria in autunno e non a Maggio.
Quello che però si può immaginare (c’è bisogno però di qualche anno in più di successi) è che i film di livello medio pensino Venezia come un luogo la cui luce può illuminarli con un’intensità molto molto buona (venite per il film da Oscar, rimanete per gli altri) e senza quella foga folle e quella competizione animale che esiste nel festival francese, dove il meglio del meglio è in corsa per l’attenzione di tutti e spesso chi è anche solo poco più piccolo finisce in un angolo, dimenticato.

Ad ogni modo secondo Barbera il film di quest’anno con maggiori possibilità per una statuetta è La La Land. Segnatevelo.

SPECIALE FESTIVAL DI VENEZIA

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