Presentato in anteprima mondiale Fuori Concorso alla settantatreesima Mostra Del Cinema di Venezia il documentario Rocco di Thierry Demaizière e Alban Teurlai è un film di quasi due ore concentrato sugli ultimi due anni di vita e attività di Rocco Siffredi, pornostar italiana di fama e rispetto mondiale raccontato in un momento della sua vita assai delicato vista la decisione di lasciare la scena porno.

Premessa fondamentale fatta anche a Rocco in sede di intervista: il critico intervistatore non ama e non conosce il porno. Per cui l’approccio al documentario è stato quello di uno spettatore praticamente “vergine” in materia “siffrediana”. Il documentario esce nelle nostre sale dal 31 ottobre al 3 novembre.

 

 

Come sei entrato in contatto con Thierry e Alban?

Mi hanno contatto loro per fare un film sul porno in generale. Io dovevo far semplicemente parte del film in quanto, parole loro, “icona del genere”. Mi hanno incontrato a Budapest e abbiamo parlato a lungo. Fu confermata l’idea di avermi come sorta di guida dentro il mondo del porno per poi permettere al film di esplorare l’ambiente a 360 gradi. Sembrava tutto chiaro ma poi, con mia grossa sorpresa, sono tornati da me tre ore dopo quella chiacchiera a Budapest con un’idea completamente diversa: volevano fare un film solo su di me. Un vero e proprio colpo di scena che, devo ammettere, mi ha colpito particolarmente.

E tu a quel punto che hai fatto?

Ma guarda… mi interessava visionare il loro materiale e conoscere il loro stile di documentaristi. Nel senso… mi avevano già chiesto di fare dei documentari su di me in passato. Ma non avevo mai accettato.

Chi erano i registi e perché non accettasti?

Negli anni? Un polacco, un inglese e un regista italiano. Perché non accettai prima? Ma in parte in relazione al tempo della mia vita in cui mi è stato chiesto. Non sapevo cosa raccontargli, per esempio, al polacco visto che me lo chiese quando non avevo nemmeno 40 anni. Mi sembrava un po’ presto per un documentario su di me. Preferii fare un libro compiuti i 40 anni. Poi devo ammettere che dei documentaristi italiani non mi fidavo molto…

Perché?

Avevo paura del pregiudizio e della solita idea che il porno fosse negativo o che ci fosse un alone di maledettismo legato a questo tipo di film. In Italia purtroppo l’approccio è questo. Per un documentario su di me non volevo né l’autocelebrazione né la diminutio. Cercavo un briciolo di verità. La gente ti vede sempre a scopare. Ti vede sempre performante. Mi dicono: “Rocco le tue scene non deludono mai”. Va tutto bene, ok, grazie… ma io cercavo con un documentario di far vedere anche le mie fragilità e lati della mia persona che magari il pubblico conosceva meno. Poi c’è da aggiungere che venivo da due anni vorticosi. Venivo da un problema di dipendenza terrificante, avevo ricominciato a girare, i figli diventano sempre più grandi. Sull’Isola dei Famosi c’è stato il patatrac emotivo nel senso che stavo già girando il documentario e si è visto che, insomma, avevo bisogno di una buona terapia.

Tu non sei mai stato dallo psicanalista?

No. Da buon abruzzese ha sempre pensato: “Ma che cazzo ci vado a fare da uno psicologo io?”. Però la pentola bolliva da un po’. Allora… ho usato Thierry e Alban come miei documentaristi terapisti.

Ci sono due o tre momenti in cui hai un vero e proprio crollo emotivo. Mi spieghi come ci sei arrivato e in base a quale tipo di tecnica documentaristica da parte di Thierry e Alban?

Guarda, avevamo tantissimi momenti come quelli dentro il film. Thierry e Alban hanno avuto casomai il problema contrario: avevano fin troppo materiale con io che piangevo. Hanno dovuto selezionare quei momenti per non far sembrare il documentario fin troppo sensazionalista.

Una scena che mi è piaciuta molto è quando provochi i tuoi due figli maschi chiedendo loro, anche con un bell’atteggiamento di sfida, se hanno mai visto i tuoi film. Mi spieghi com’è nata?

È l’unica scena del documentario che non avrei mai voluto fare. A un certo punto… ho deciso di sfruttare la camera di Thierry e Alban per sfidarli, hai ragione. Ho cercato come mai di metterli in difficoltà per capire se grazie alla presenza della camera io avessi potuto capire qualcosa di più del loro pensiero riguardo il lavoro del padre. Ne parliamo da anni e nel mio piccolo ho sempre cercato di dir loro la verità circa il lavoro del padre e grazie anche all’aiuto di mia moglie ci è sembrato di averli messi a loro agio fin da quando abbiamo potuto raccontare loro la verità. Però, in quel momento, ho cercato di capire se con la presenza di due documentaristi sarebbe potuto venir fuori qualcosa di più problematico e polemico. È proprio il motivo per cui uso la parola “terapia” associata all’idea di realizzare questo documentario su di me insieme a Thierry e Alban. In quel momento… ho riprovato a chiedere ai ragazzi se il lavoro del padre li aveva mai destabilizzati. Li ho provocati anche con durezza. È vero. Avevo quella faccia arrogante e di sfida perché volevo comunicare: “Adesso siete maggiorenni. Non mi venite a prendere per il culo. Ditemi sul serio che pensate di vostro padre”.

Finale su due personaggi fondamentali del documentario. Tuo cugino filmmaker Gabriele e la collega britannica Kelly Stafford. Mi sembra che come il Marcello Mastroianni di 8½ (1963) di Fellini anche tu alla fine del documentario abbia il privilegio di vedere alcuni personaggi della tua vita fare il girotondo attorno al ricordo della tua esistenza e della tua carriera. Quindi vorrei chiudere questa intervista chiedendoti… chi è quel buffo collaboratore factotum di nome Gabriele nel film della vita di Rocco Siffredi?

Gabriele… è il numero uno. Non voglio aggiungere altro. Il numero uno.

E Kelly Stafford?

Kelly è la mia musa. I miei film più belli li ha fatti Kelly. Dal 1996 al 2006. Il mio periodo migliore è stato con Kelly. Quindi, visto che sei un critico cinematografico che non conosce il porno, voglio dirti una cosa che capirai al volo: Kelly Stafford è stata per me come Robert De Niro è stato per Martin Scorsese. Punto.

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