Il vero Rutger Hauer non è quello di Blade Runner o di Ladyhawke, non è quello di L’Amore e il Sangue o di I Falchi Della Notte; il vero Rutger Hauer è quello di The Hitcher, Furia Cieca e Hobo With A Shotgun, quello ruvido e sfatto, umorale e intrattabile. Così l’attore olandese si è sempre presentato e così era anche al Science Plus Fiction di Trieste, in quel giorno di umore solare, ospite d’onore del festival che gli ha consegnato il premio Urania D’Argento.

Come sempre accade dal 1982 ad oggi la prima domanda per lui è stata riguardo Blade Runner, solo che adesso l’argomento è davvero di attualità per via del nuovo Blade Runner 2049 di Denis Villeneuve. Hauer liquida l’argomento con una frase sola dopo la quale non avrà più senso tornare sull’argomento.

“Di Blade Runner 2 non so nulla e quindi non posso dire nulla, l’unica cosa che posso dire è che non credo abbia senso.”

Ci può dire qualcosa allora di Valerian, il film di Luc Besson in cui ha una parte?

“Ho girato un giorno solo, Luc Besson davvero voleva che facessi questa particina ma non credo sia importante, è solo un favore ad un grande regista con cui non ho mai lavorato. La cosa strana accaduta sul set è che ho incontrato Ethan Hawke e ancora una volta abbiamo lavorato insieme senza stare mai davvero sul set contemporaneamente, prima o poi faremo un film, lo vogliamo entrambi. Io ho anche una sceneggiatura….”

Qual è la cosa di cui è più fiero e quella di cui è meno fiero?

“Ti pare che te lo vengo a dire così?!? Tira ad indovinare dai, provaci”

….forse non è fiero di Ladyhawke, che è stato molto difficile?

“Sbagliato. La verità è che per anni facevo film senza sapere di essere nato per fare questo lavoro, anche quando feci Blade Runner non lo sapevo, e quando sei nato per fare qualcosa non importa se sia difficile o meno. E poi chi vuole fare cose facili? Recitare non è difficile, è pura gioia. Le cose facili sono per i morti”.

È vero che ha scritto lei il monologo finale di Blade Runner?

“Non esattamente. La verità è che lo script prevedeva una pagina di monologo. Mi era subito sembrato troppo per un replicante che si sta spegnendo, ci volevano 5-10 secondi massimo per una morte in contrasto con quelle da opera di tutti gli altri robot. Con Ridley l’idea fu di trovare una battuta fulminante e di tenerne qualcun’altra sullo spazio che aveva un senso. Ed è divertente perché alla fine non dice molto ma significa molto per quel che è successo in precedenza, per tutto ciò che prima non è stato detto. Di certo fu mia l’idea della colomba, che cioè parlando poco il volo della colomba avrebbe fatto il resto. Come sempre poi le cose non vanno come vorresti, visto che faceva freddo e la mia mano era calda la colomba non voleva volare quando lasciavo la presa, e se la stimolavo con le dita se ne andava camminando. Pensa te! Gli avevo dato la scena e l’aveva fottuta!”.

Cosa ha imparato da quel film?

“A stare allerta sul set, specie quando le cose vanno male. Durante le riprese di Blade Runner ci furono centinaia di cose che andarono male, errori e problemi, ed hanno fatto del film quello che è. Tu cerchi di raccontare una storia e poi la vita cerca di entrarci dentro, che è interessante.
La mia filosofia è simile a quella del mio amico Frank Gehry, l’architetto. Nel documentario su di lui c’è un momento in cui con il suo socio riflette su come realizzare il museo di Bilbao e per farlo accartocciano un foglio e lo guardano, poi lo posizionano meglio, lo modificano, lo sistemano e continuano a guardarlo fino a che poi lo scartano, lo buttano via. È come io lavoro ai miei ruoli, ci giochi e se non trovi la soluzione oggi la troverai domani, è un messaggio così onesto”.

Un ricordo di Ermanno Olmi e La Leggenda Del Santo Bevitore?

“Pensa che Ermanno mi volle dopo avermi visto fare delle interviste per The Hitcher! Parlò con alcuni dei più grandi attori dell’epoca ma non trovava qualcuno di cui si fidasse per quel ruolo. Lui dalle interviste di un film capì che ero l’attore che voleva, che è divertente, mi fecero un’offerta e lo incontrai a Parigi per parlarne. Avevamo un traduttore, perché lui non parla inglese, il che rende tutto più difficile, ma la prima cosa che mi disse fu: “Rutger questo film è un film d’azione ma tutto sulla faccia” e la cosa mi impressionò, così decisi di farlo. La vera lezione che ho imparato da lui è stata a metà riprese, stavamo facendo una scena leggera e con la coda dell’occhio vedevo Ermanno in piedi guardare in alto, nel vuoto, senza osservare il set. Finita la scena la battezza buona, allora vado da lui e gli chiedo come facesse a sapere che il ciak andava bene non avendolo visto e nemmeno parlando inglese, mi rispose: “Il concerto”, cioè il sole, la camera, il respiro… Nulla sfugge ad Ermanno, è pazzesco. Il secondo film fatto con lui è stato almeno 20 anni dopo, Il villaggio di cartone, un’improvvisazione sua, senza script. Era pazzesco, solo lui sulla scena che improvvisava con la videocamera, davvero visionario”.

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