È stato il primo action hero moderno Kirk Douglas (nato Issur Danielovitch Demsky a Amsterdam il 9 dicembre 1916), in anni in cui la mitologia del cinema d’azione era declinata principalmente nel western o nel cinema d’avventura, e in cui il modello aureo era o Errol Flynn, splendido ed elegante controfigura di se stesso, oppure i tarchiati da bassi fondi Paul Muni o James Cagney, facce meschine e poco raccomandabili. Kirk Douglas invece cominciava per primo ad esibire fisici non convenzionali, uniti a visi belli e spigolosi, contaminava la sua azione con una furia che è stata la cifra di un’intera carriera e ha ispirato decine di attori che sono seguiti (il grugno di Eastwood, la sfacciataggine di Steve McQueen).
Giunto al 100esimo anno di età entra nel club dei divi dell’era aurea di Hollywood ad aver vissuto un secolo (l’altro grande nome del club è Olivia de Havilland), potendosi fregiare di essere il più rivoluzionario di tutti.

In anni in cui il cinema, anche quello d’azione lavorava sulla staticità, sulle figure granitiche e titaniche, pesanti e potenti come poteva essere John Wayne (un gigante della fissità, capace di fare tutto con pochissimi movimenti), lui portava una mobilità unica, più simile ai grandi comici del muto (i primi attori d’azione mai impressi su pellicola), agitato e frenetico anche in ruoli di parola.
Lo dimostra bene il film che lo ha lanciato, Il Grande Campione, un noir spietato in cui la violenza sul ring è pari a quella della scalata sociale del protagonista (boxe e scalata sociale erano intimamente legate già nel seminale Il Sentiero della Gloria, forse non a caso con Errol Flynn). Da lì per Douglas si aprono le strade del noir prima e del western poi, i generi più di moda di quegli anni, i più interessanti in cui stare e in assoluto quelli in cui meglio si adatta. Per Il Grande Campione riceve anche la prima delle tre nomination all’Oscar che non gli hanno mai fruttato nulla. Nel terzetto ci sono Lust for life, un film osannato ma convenzionale oltre ogni dire in cui interpreta Van Gogh, e Il Bruto e La Bella, metacinema puro che racconta il lavoro del produttore, oggi molto meno forte di una volta.

Serio come un attore drammatico, mobile come Chaplin

Serio come un attore drammatico, mobile come Chaplin

Non sono tuttavia quelli i film da guardare per capire che figura rivoluzionaria fu Kirk Douglas. Come non lo sono le commedie e i ruoli leggeri in cui da sempre non è troppo a suo agio, nonostante ci sia misurato soprattutto nella parte terminale della sua carriera (un’eccezione è 20.000 Leghe Sotto i Mari). È semmai nell’epico Le Catene Della Colpa, che va guardato, quando ancora non poteva ancora comparire nella locandina, schiacciato da nomi più altisonanti come quello di Robert Mitchum, né imporre il suo stile mobile, ma già determinante. Per iniziare a notare il Douglas che conosciamo bisogna aspettare solo 4 anni, in una produzione più particolare come il fantastico L’Asso Nella Manica di Billy Wilder (in cui è protagonista assoluto). Lì mostrava già una recitazione completamente diversa dai suoi pari, estremamente moderna e una delle poche dell’epoca a risultare ancora attuale. Era un giornalista capace di tutto per dare la notizia di un uomo intrappolato e a rischio della vita. Disperato e brutale anche in quel ruolo drammatico (che lui sembra trasformare in uno d’azione), vitale e pronto a non essere sempre bello davanti alla macchina da presa, Kirk Douglas non ascoltava nessuno. È sempre appartenuto a quella categoria di attori che preparano privatamente i personaggi, quelli che arrivano sul set sapendo loro cosa devono fare.

In una battuta lo stile di recitazione di Kirk Douglas

In una battuta lo stile di recitazione di Kirk Douglas

Normale che con questo carattere sia presto arrivato alla produzione. Con la Bryna Pictures ha infatti dato vita ad una serie di film tra cui si distinguono gli arcinoti (e giustamente) Orizzonti di Gloria e Spartacus, con il suo pupillo dell’epoca: Stanley Kubrick. Ma anche con uno dei professionisti con cui era più difficile lavorare in assoluto, l’ostracizzato Dalton Trumbo. Riconoscendo pubblicamente il suo contributo alla scrittura di Spartacus di fatto Douglas mise l’ultimo chiodo sulla bara della caccia alle streghe hollywoodiana. Si prese un bel rischio (uno che altre star come Edward G. Robinson ad esempio non volevano correre) ma come sempre l’esigenza di buttarsi a capofitto, di interpretare anche nella vita l’uomo forte era più bruciante di ogni altra cosa.
Se Spartacus è stato un film più suo che di Kubrick, un’ossessione privata in cui il suo ampio petto è protagonista assoluto, è Orizzonti di Gloria la prova migliore, quella in cui Kubrick lo fa ribollire dentro un’uniforme stretta, cappotti invernali e giacche abbottonatissime ma espressioni che si mordono la lingua. Forse una delle pochissime interpretazioni imprescindibili in un film di Stanley Kubrick.

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In 100 anni ovviamente ha avuto modo di lavorare con tutti i nomi migliori. Inarrestabile nel noir di William Wyler Pietà Per i Giusti, in cui è un poliziotto indurito dalla vita, che porta un carico di violenza eccessivo solo con la sua presenza, antesignano di tutti i poliziotti vecchi, stanchi e incazzati del cinema degli anni ‘70 e ‘80. Ma poi per Howard Hawks finalmente diventa grande mandriano in un caposaldo del western di tutti i tempi: Il Grande Cielo. Vedendo questo film è evidente che quella, tra tutte, rimane la sua vera dimensione. Anche se i western non sono i suoi film più famosi e migliori, lo stesso quel genere in cui anche un dialogo è una scena d’azione, è quello in cui Kirk Douglas è imbattibile. Girerà con Andrè de Toth Il Cacciatore Di Indiani in cui combatte il nemico n.1 di ogni western vero, e poi ancora sarà incredibile in L’Uomo Senza Paura di King Vidor, uno dei migliori western sulla fase terminale del west, sul filo spinato che arriva irreggimentare quel che una volta era selvaggio. Quasi un film disilluso come quelli che arriveranno decenni dopo. E siamo ancora nella metà degli anni ‘50! Ancora deve interpretare con Burt Lancaster Sfida all’O.K. Corral per John Sturges.

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Dinamico anche in un momento di stasi

Nemmeno l’immenso John Frankenheimer, il vero padre putativo del cinema d’azione moderno, può fare a meno di lui per il thriller fantapolitico Sette Giorni a Maggio, roba come oggi non se ne fa più, solida quanto un film di Eastwood, furiosa come uno di George Miller. Eppure nonostante metta a segno anche l’altra grande hit della sua carriera, Solo Sotto Le Stelle, gli anni rimangono ‘60 il decennio del declino. Non smetterà quasi mai di fare film almeno fino ai ‘90, ma la discesa è iniziata assieme ai generi che lo esaltano. Noir e western non sono più in voga e quando scoppia la New Hollywood lui è una delle primissime vittime. Aveva ancora molto da dare ma i suoi ruoli cominciare a diventare quelli di Clint Eastwood. Lo smacco peggiore però è forse quello di aver inseguito per più di 10 anni la possibilità di fare un film su Qualcuno Volò Sul Nido Del Cuculo (di cui aveva comprato i diritti e che aveva già portato a Broadway), prima con lui come protagoniste e poi, per raggiunti limiti d’età, con il figlio, per vederselo portare via quando ormai pensava fosse impossibile proprio dalla grande coppia della New Hollywood Milos Forman/Jack Nicholson. Seguiranno 5 Oscar e un successo mostruoso.

Certo, in quanto primo action hero moderno Kirk Douglas è anche il primo a non arrendersi alla propria età, ben prima di un altro mito della longevità come Charles Bronson. Tanto che nel 1978 arriva l’ultima pazzesca fiammata: Fury di Brian De Palma, un horror d’azione girato a 68 anni in cui lui porta un carisma infinito.
In una carriera così l’assenza di un Oscar che non sia alla carriera (consegnato nel 1996) è quasi un attestato di stima. Chiunque ami il cinema duro e senza compromessi, nel quale un’azione può valere tanto quanto una parola e le parole possono essere pronunciate con la stessa veemenza con la quale si sferra un pugno, non può non avere appesa in un angolo del suo cuore una foto di quest’uomo.

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