Non ci sono più gli zombie di una volta.

Qualsiasi elemento, idea o figura dell’immaginario più viene utilizzata, più si usura, più diventa generica e perde il proprio specifico. Perchè a furia di abusarne quell’oggetto culturale viene arricchito di caratteristiche, viene riempito di proprietà, aggettivi, potenzialità e funzioni che ad un certo punto diventa tutto e nulla. Oggetti plasmati così tante volte da aver perso la forma primigenia.

In questi ultimi 10 anni, cioè da quando 28 giorni dopo li ha riportati all’attenzione del pubblico generalista, gli zombie hanno lentamente perso qualsiasi specificità e possono essere qualsiasi cosa: un mostro, una creatura da compatire, una minaccia, una realtà ineludibile o uno spauracchio per il futuro. Eppure una volta non era così.

Alla loro nascita gli zombie, ovvero i morti che tornano in vita uscendo dalle tombe, sono una precisa metafora della società. I cadaveri che camminano in mezzo a noi, che ripetono in maniera forzata le azioni compiute in vita, che anelano cervelli e ciondolano inerti nei centri commerciali erano un modo come un altro di mettere paura e suggerire che quelle creature senza vita, orrende, putrefatte e inevitabilmente lentissime non sono troppo diverse da noi che invece siamo puliti.

Nei film uscivano dalle tombe ma sembrava che fossero una metafora del vivere moderno (non a caso sono spesso vicini a luoghi della modernità come i supermercati).

Per circa 30 anni, i morti viventi sono state delle minacce lente e inesorabili, facili da prendere in giro, apparentemente semplici da sconfiggere, vista la fragilità, il grosso punto debole (la testa) e la lentezza ma poi sempre in grado di sopraffare gli uomini con la costanza e facendo leva sul senso di superiorità, sulla sbruffonaggine di chi si crede migliore di queste creature decerebrate, le sottovaluta e inevitabilmente ne viene morso.

Poi nel 2002, Danny Boyle ha ripreso l’idea messa in scena da Umberto Lenzi in Incubo sulla città contaminata (1980), cioè ibridare i morti viventi alla rabbia, il cinema di paura con quello (neonato) di contagio, che poi in quel momento voleva dire mescolare una tradizione antica ad una fobia moderna, cioè quella per la pandemia, il virus letale che uccide il pianeta.

 Dei morti viventi Lenzi e poi Boyle esaltano la capacità di propagare la propria genia, mordere e contagiare, come un virus, per renderli grande allegoria delle malattie contemporanee. Non sono più lenti ma corrono (anche questa idea di Lenzi) e paiono rabbiosi, disumani non per la prossimità allo stato di cadavere che ne causa la lentezza ma per la furia con la quale vogliono cibarsi di altri umani, ovvero propagare il virus.

Dopo il 2002 con intensità crescente gli zombie intesi come “contaminati” sono cresciuti a vista d’occhio. Solo un cinephile nostalgico come Edgar Wright nel 2004 in L’alba dei morti viventi (il cui finale è tra gli schiaffi cinefili più forti che si siano visti recentemente) ancora li rappresentava in stile romeriano per raccontare come in fondo non ci sia differenza tra molti di noi e loro, mentre tutto il resto del mondo andava in un’altra direzione. Gli spagnoli di REC mettono in quarantena un palazzo intero, andando a parare dalle parti del satanismo per i loro contaminati, Snyder rifà Romero stesso in chiave moderna con Dawn of the dead, nel 2006 The Zombie Diaries prosegue la scia e poi ancora torna 28 Settimane dopo, Will Smith trasforma anche i vampiri di Io sono leggenda in contaminati simil-zombie e fioriscono spinoff e variazioni ovunque.

Mentre Soderberg va al cuore del problema girando Contagion, vediamo arrivare nelle sale film come La Horde (un francese durissimo tutto in un palazzo), il remake di La città verrà distrutta all’alba, Benvenuti a Zombieland, la serie The walking dead e una grandissima quantità di videogiochi che riprendono sempre di più la minaccia dinamica e contagiosa degli zombie (capofila, ovviamente, è Resident Evil, sia al cinema che sulle console).

Tutto questo cambia gli zombie, o meglio ne cambia la percezione comune. Non sono più una minaccia particolare ma sono un’apocalisse, sono una delle maniere in cui il pianeta rischia di finire (questo anche grazie alla tendenza verso l’apocalittico che ha caratterizzato il cinema intorno al 2012), di nuovo con una comunanza non casuale con i virus e le epidemie virali.

La si potrebbe mettere in un’altra maniera ancora: raccontare il diffondersi di un virus non è tanto divertente. Raccontare il diffondersi di un virus che rende gli uomini dei rabbiosi, una razza da combattere, ammazzare e da cui fuggire di corsa, lo è molto di più.

E’ chiaro che non c’è nulla di male nell’evoluzione di una figura archetipa del cinema. E’ semmai significativo il fatto che negli anni ‘00 la paura per la pandemia, unita al correre in giro per la società dell’idea che il mondo stesse per finire, si siano attaccati a quei personaggi della tradizione filmica che più sembravano adatti a raccontarle.

Loro malgrado gli zombie sono stati cambiati e plasmati dal cinema per diventare altro da ciò che erano, non più un elemento da horror ma protagonisti di film d’azione, di fantascienza, di commedie e quant’altro. Poichè qualcuno o qualcosa doveva farsi interprete di quest’istanza culturale, questa paura in qualche modo andava messa per immagini.

Abbiamo cambiato così tanto gli zombie che solo qualche mese fa è uscito Warm bodies, un film in cui il morto vivente si innamora, in cui cioè il pubblico parteggia per lui e vive la storia dal suo punto di vista. Riavvolgendo la storia fino al 1969, l’idea stessa di narrare dal punto di vista dello zombie non poteva aver nessun senso proprio perchè lo zombie andava guardato da fuori, il bello era tutto lì. L’idea di La notte dei morti viventi era che non dobbiamo identificarci con lui e comprenderlo ma guardarlo e condannarlo per capire che forse noi siamo come loro, meno marci ma ugualmente inebetiti da una società che ci riduce a corpi che vagano.

In tutto questo il capitolo finale dell’evoluzione (per il momento), ovvero World War Z, continua a concepire lo zombietudine come un virus (addirittura se ne cerca una cura) e decide di perdere totalmente il contatto con gli zombie come oggetto da studiare. In tutto il film non ne vediamo mai uno da vicino (tranne in una sola scena e per motivi di suspense), ma solo da lontano e a gruppi di centinaia. Gli zombie di Forster sono come cavallette, esseri spersonalizzati che non hanno più nessun legame con la vita che conducevano prima (mentre in passato era proprio il legame con il loro essere stati uomini, aver avuto amanti, figli, proprietà e affetti una delle componenti più forti di queste figure dell’orrore), non sono nemmeno più degli ex-uomini ma mostri e basta, da sterminare senza pensarci, bersagli su cui sparare a caso.

Insomma, li continuiamo a chiamare con lo stesso nome, “zombie”, ma non hanno niente di quel che li caratterizzava all’inizio. Non anelano ai cervelli, non escono dalle tombe, non sono la metafora della nostra società e della maniera in cui influisce su di noi e non camminano inebetiti. Rimane il fatto che trasformano con un morso, ma quello in fondo lo fanno anche i vampiri…