E’ stato per circa 40 anni dai ’60 ai ‘90 il regista italiano più conosciuto, citato, ammirato e noto in tutto il mondo (sostituito poi da Sergio Leone), ha diretto 24 film come non se ne erano mai visti (nè più se ne sono visti) senza mai concedere nulla al cinema come lo si intendeva “prima di Fellini”, ha vinto 5 Oscar, ha battuto per tutta la vita percorsi che conosceva e sapeva percorrere solo lui e infine ha diretto uno dei 4 film fondamentali della storia del cinema.

Esattamente oggi Federico Fellini non è più in vita da 20 anni e il suo film più importante, Otto e mezzo, sarà proiettato tra poco meno di un mese al Festival di Torino in una versione restaurata qualche anno fa. Altri festival (da Venezia a Roma) invece propongono documentari sulla sua vita.

Non è molto ma nemmeno poco se si considera che Fellini e i suoi film rimangono il soggetto prediletto della maggior parte delle pubblicazioni di cinema e delle retrospettive, gigantesco nume tutelare intoccabile, genio per definizione ormai, maestro e tutti gli altri epiteti venerabili possibili. Il rapporto che abbiamo con Fellini mostra bene tutto quello che non va nella cultura cinematografica italiana.

Reso un mito fasullo da una generica rievocazione nostalgica dei bei tempi andati, Fellini ha purtroppo subito un percorso “museale” che lo ha privato di quella contingenza e quella gretta materialità che erano il suo tratto distintivo (la Chiesa lo odiava già prima di La dolce vita) e, a vedere i suoi film, ancora lo rendono straordinario.

Percepito oggi come un oggetto da salotto, cineasta ammirato da chi non lo conosce e considerato un esempio virtuoso di probo viro, gigante della moralità, titanico simbolo della professionalità, Fellini (basta leggere un po’ di cronache serie) era in realtà un uomo terribile, bugiardo per professione, mediamente bastardo e soprattutto cronicamente infedele. Un maiale, si potrebbe dire, appassionato di culi e tette, affamato di vita e di cibo, falsissimo nelle interazioni con gli altri, vanesio come pochi ma come nessuno capace di mettere a nudo l’interiorità nei propri racconti, la propria ovviamente, che altre non ne conosceva.

Era per giunta abbastanza ignorante, e lo ammetteva candidamente, non aveva letto praticamente nulla di tutto ciò che è considerata buona letteratura o la materia “culturale”, era invece un fanatico dei fumetti (ha disegnato sempre, tutta la vita) e un consumatore di riviste umoristiche (notoriamente è presso una di queste, il Marc’Aurelio, che ha cominciato a lavorare), e dai suoi film questo emerge chiaramente. Mai intellettuali o sofisticati sul piano del contenuto ma anzi sempre bassissimi, animati da una forza primordiale che attinge all’onirico e all’inconscio e conditi da un umorismo grottesco irresistibile, le sue opere che nessuno conosce ma che tutti citano (ma qualcuno l’ha mai visto quel capolavoro di Toby Dammit? Il suo horror che non è un horror, tratto da Poe, su un regista/vampiro chiamato a Roma, dalla chiesa, per fare un film su Gesù Cristo?!?!) sono un tripudio di desideri bassi, pulsioni elementari e schiaffi alle autorità mostrati attingendo non al pensiero conscio ma a quello inconscio, un disordine che spesso è oscuro se affrontato con logica ma che parla chiaramente la lingua del rimosso ancestrale, dei ricordi e dell’inconfessabile.

 

 

Materia fangosa messa in scena (con un contrasto che a lui piaceva moltissimo) con il massimo dello splendore epidermico: luci, passerelle e trucco ben in evidenza.

E così del resto la girava. Con metodi tutti suoi, inventati per poter fare quello che nessuno riusciva a fare (mettere i propri pensieri in scena attraverso una spaventosa quantità di altri uomini: direttori della fotografia, attori, costumisti, coreografi ecc. ecc.), Fellini girava nel caos più totale, doppiava e risonorizzava ogni scena perchè sul set gridava indicazioni mentre la macchina da presa andava, facendo fare agli attori quello che veniva in mente a lui sul momento, coordinandoli e spostandoli come pupazzetti, salvo poi dopo, al montaggio, aggiustarsi suoni e suggestioni a piacimento. Arrivato al massimo della propria carriera (4 oscar come miglior film straniero) poteva lavorare con alcuni degli uomini più incredibili che il cinema abbia mai messo a disposizione ad un cineasta, il famoso artigianato italiano che tanto si rievoca, nerd pazzeschi di qualsiasi ambito (si dice avesse il miglior “nerista” del mondo, cioè esperto di resa del “nero” nelle pellicole in bianco e nero) in grado di fare quel che piaceva a lui: creare artificialmente la realtà, così da usare luci per fare il sole, tessuti per fare il mare e via dicendo.

Quando il massimo può collaborare con il massimo e quello che esce fuori cambia la storia del cinema: Otto e mezzo.

Dopo 50 anni dalla sua prima uscita e 20 anni dalla morte di Fellini tutti hanno provato a rifare un proprio Otto e mezzo (da Woody Allen con Stardust Memories fino a Spike Jonze con Il ladro di Orchidee) cioè un film che racconti se stessi, autori che cercano di fare un film e si barcamenano con una vita difficoltosa, creando di fatto un nuovo genere. Nessuno però ci è mai riuscito davvero.

 

 

Morando Morandini l’ha definito “il Ben-Hur del cinema d’avanguardia” e questo dice tutto quel che c’è da dire sull’importanza storica del film, ma la verità vera che nessuno menziona è che Otto e mezzo, come tutto il miglior Fellini, morde l’anima e prende il cuore a cazzotti, inventa parlate flebili e usa il vento di sottofondo per commuovere, non cerca l’approvazione del cervello ma il coinvolgimento della pancia se non proprio del basso ventre.

Mostra le persone per come sono e come vorrebbero essere così da mettere in scena il contrasto insanabile di ognuno tra ciò che si ha e ciò che si vuole, un film che contiene la più grande frase su un rapporto padre figlio (ovviamente all’interno di un sogno) e alcuni dei momenti a totale sorpresa più toccanti del cinema italiano. Senza mai toccare nemmeno da lontano la letteratura, la poesia, il teatro o anche solo riferimenti sofisticati.

Passato alla storia come un film complesso e difficile, solo perchè Fellini riprende sogni e realtà senza differenze estetiche ma alla stessa maniera, mescolandoli il più possibile per giungere ad una forma unica di vita, quella che desidera, Otto e mezzo è in realtà un trattato di una semplicità disarmante che ha distrutto ogni residua esigenza di trama nei film (da cui il cinema d’avanguardia), insegnando come questa al cinema non conti niente, non più di un dettaglio dello sfondo, mentre il vero cuore di questa forma d’arte è la maniera in cui le immagini interagiscono con il sonoro così dispiegando e sviscerando un racconto, qualunque esso sia.

Scevro da qualsiasi sovrastruttura intellettuale ma interessato solo al sesso e al rapporto che gli esseri umani hanno con se stessi, Fellini è forse il cineasta più puro che sia mai esistito.