C’è un momento preciso all’inizio di Big eyes in cui è facile riconoscere Tim Burton, il suo stile e il suo mondo: è quando la protagonista nella prima scena scappa dal marito.

La vediamo lasciare una specie di deserto riempito di villette a schiera tutte uguali sotto un cielo mostruosamente vuoto e senza nuvole, un luogo che molti riterrebbero idilliaco, ma che visto dal punto di vista e con l’occhio di Burton è un incubo, e poi procedere lungo paesaggi ritoccati al computer per essere eccessivamente belli e lussureggianti, verdi e pieni di sole. È il vecchio paradigma burtoniano per il quale i luoghi apparentemente più splendenti, modellati per essere oasi di presentabilità, ordinati e corretti sono in realtà la culla delle persone peggiori o delle situazioni da incubo.
Si tratta dell’unico segno forte burtoniano in un film che per la prima volta marginalizza la mano pesante dell’autore. Anche il tema (un’artista kitsch e pessima che ha i medesimi ...