Quando A Ciambra inizia c’è un bambino di circa 6 anni (forse meno) che gioca con altri zingari come lui in un campo e nel farlo impreca, minaccia e fuma, ma fuma bene con la naturalezza di chi lo fa da molto tempo. A quel punto il film è partito da qualche minuto e il pubblico in sala ride, perché è una scena incredibile, ride anche se non c’è niente da ridere (quel bambino, è evidente, non sta recitando), ride perché è di fronte alla vera e concreta assurdità di un mondo che non è conosciuto davvero. Si tratta del mondo degli zingari, nel caso particolare di Gioia Tauro, oggetto dell’interesse mediatico, della propaganda politica e delle lamentele popolari ma mai di indagini vere e nemmeno di storie.
Al cinema abbiamo visto quelli molto finzionali (ma stupendi) di Suburra, malavitosi a modo loro, e ora A Ciambra fa un racconto pazzesco che può esistere solo lì. Cambiando etnia e provenienza ai personaggi nulla reggerebbe, così invece è credibilissimo. Non sarebbe infatti pensabile al...
Duro quando non lo si direbbe, dolce quando ci porta a non aspettarcelo, A Ciambra si fonda su un continuo senso della sorpresa
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