Jim Jarmusch è forse il meno costante e affidabile tra i grandi registi indipendenti americani, altalenante e capace di ammorbare quanto di calamitare. Tuttavia quando è in forma, quando cioè i suoi film raggiungono l’equilibrio migliore tra ritmo, rarefazione, messa in scena e la consueta celebrazione del vivere a contatto con l’arte che sta a cuore a Jarmusch, essi vivono di una leggerezza che è unica e ogni volta suona nuova.
Paterson è così, un film impalpabile e soffice, che ambisce a mettere in scena la cosa più complicata di tutte, nonchè la più velleitaria e maltrattata dal cinema banale: la poesia.

Paterson è il nome dell’autista protagonista che vive in una città anch’essa chiamata Paterson, molto fiera delle grandi personalità nate lì. Paterson (autista ma anche città) conduce un’esistenza tranquilla e ancorata agli anni ‘50, contornato da piccoli oggetti di un’epoca passata, quaderni di appunti in cui scrive le proprie poesie senza alcuna velleità di condividerle. Vive con ...