Stavolta la consueta odissea di Kim Ki-Duk nella violenza è un film di vendetta che inizia con l’omicidio di una ragazza (una cosa fatta bene e metodica, organizzata e pianificata) e si distende nella ricerca, cattura, interrogazione, tortura e punizione dei singoli responsabili da parte di una milizia autodeterminatasi giustiziere.
Per Kim Ki-Duk non è possibile mai mostrare il bianco senza far vedere il nero e questa è la sua forza. La violenza efferata che tempesta i suoi film non è mai piacevole per lui, anzi la odia ma non può concepire di mettere in scena il suo opposto senza di essa e più vuole volare alto più si sente in dovere di cadere in basso nell’impressionabile. Per questo come pochi altri sa riprendere e mostrare il dolore fisico (perpetrato e inflitto), perchè ne ha un tangibile terrore e questo si vede.
Uno ad uno i responsabili sono catturati, interrogati in malo modo con sbrigativa insistenza e poi si passa al massacro. Più si va avanti però più nel grupp...
Di tortura in tortura stavolta Kim Ki-Duk affronta apertamente il tema della violenza che corre lungo tutto il suo cinema
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