Quando una persona è realmente dedita al proprio lavoro, tanto da sentirsi davvero grata per avere la fortuna di vivere con quello che, probabilmente, ha sempre sognato di fare, si crea un trasporto emozionale difficile da mascherare, anche se si tratta di un individuo che, nel suo settore di riferimento, può vantare una certa esperienza. In questa categoria, rientra di sicuro Matt Reeves: regista che, nel 2008, ha rivoluzionato un genere ben conosciuto dal grande pubblico come quello del monster movie, con una pellicola, Cloverfield, spettacolare, adrenalinica e strettamente interconnessa all'evoluzione del web 2.0 e della comunicazione virale. I più scettici, al tempo, sostenevano che, vuoi o non vuoi, il film fosse più un parto della mente di J.J.Abrams piuttosto che del suo regista e dello sceneggiatore Drew Goddard. Alla luce di quanto fatto da Matt Reeves con la sua pellicola successiva, quel Blood Story (Let Me In) da oggi nelle sale italiane grazie a Filmauro, gli scettici di cui sopra dovrebbero fare un piccolo esame di coscienza: Blood Story, più che un remake (peraltro ottimamente congegnato) è una nuova versione, un nuovo adattamento del romanzo di John Lindqvist orchestrato dalla mano di un filmmaker che, dopo il roboante blockbuster di fantascienza, conferma ora una sua precisa visione del mezzo cinematografico come veicolo per trascinare lo spettatore all'interno della storia creando effettiva empatia con i personaggi. Non importa se questa viene raccontata con una sola macchina da presa sballottata per le strade di una New York devastata da un gigantesco alieno e dalla sua letale progenie, piuttosto che dai piani di visione multipli di una vicenda che segna l'ingresso nell'adolescenza di un bambino che incontra una strana ragazzina che dice di avere la stessa età da ormai troppo tempo. Il cinema, per Matt Reeves, deve creare legami.

Insieme a un piccolo gruppo di colleghi, abbiamo avuto la possibilità di intervistare telefonicamente Matt Reevs e di scoprire, grazie alla sua viva voce, il suo incredibile entusiasmo, la sua elevatissima dedizione verso la professione di regista. Il tutto condito da una professionalità, una modestia, un entusiasmo e da un'umanità cui noi italiani, abituati ad avere a che fare con beceri individui che si sentono divinità in terra solo per aver partecipato a mezza puntata del più volgare reality show, non siamo proprio abituati.

La nostra deontologia c'impedisce di "appropriarci" delle domande e delle risposte degli altri giornalisti che hanno partecipato ad un appuntamento che esulava dai soliti canoni di una conferenza stampa. Pertanto proporremo, in maniera estesa, solo le due domande che siamo riusciti a fare al regista americano riassumendo poi il restante contenuto della tavola rotonda telefonica. L'aggiunta di un pizzico di fortuna dato da una turnazione organizzata in ordine alfabetico ha consentito solo a noi e al giornalista di un'altra testata di proporre ben due quesiti al regista nell'arco di tempo concessoci. Le risposte interessantissime ed estremamente circostanziate date da Matt Reeves a Badtaste.it potrebbero già da sole fugare qualsiasi dubbio su un remake che, secondo qualcuno, non doveva essere fatto. Anche perché il primo sostenitore di questa posizione era lo stesso Matt Reeves.

 

 

Oggigiorno, i film horror americani sembrano basati solo su effettacci gore e situazioni in stile porno. Blood Story è un oggetto anomalo. È elegante, intelligente ed emozionale. Onestamente, credo che queste siano le principali ragioni del deludente box office americano. A tuo modo di vedere, quali sono i maggiori pregi del tuo film? Pensi che con meno intelligenza e più sangue il risultato commerciale sarebbe stato diverso?

È molto difficile dare una risposta a questa domanda perché al tempo della sua uscita in America stavano accadendo diverse cose. Prima di tutto, il suo distributore e finanziatore, la Ouverture Films, stava chiudendo i battenti. Era una situazione difficile in cui le persone che avevano voluto realizzare il film sono state licenziate prima della sua uscita. Era tutto molto caotico. Ti dirò una cosa interessante: recentemente il film è uscito in Giappone con una release limitata che ha avuto un grande successo. In quel paese è stato distribuito facendo leva proprio su quegli elementi che hai menzionato e non solo su quelli horror. È stato proposto come un film intelligente e, soprattutto, basato sulle emozioni. Alcuni mi hanno confidato che questo sarebbe stato il modo giusto di presentare Blood Story anche negli Stati Uniti. Così facendo, in terra nipponica, Blood Story si è guadagnato una schiera di estimatori, contrariamente a quando accaduto in America dove è passato come il solito film dell'orrore. Ovviamente mi rendo conto che è sempre facile fare questi discorsi a latere dire “se lo avessimo proposto così avremmo ottenuto dei risultati differenti” quando ormai una cosa è stata fatta. Il film è stato pubblicizzato sul mercato in una certa maniera perché doveva attirare una vasta audience, così però è finito per passare come qualcosa che effettivamente non è. Non si tratta di un film sanguinolento per un vasto pubblico. Se hai visto il film sai che non si tratta di questo.

Sai, la vera motivazione che mi ha spinto a voler fare questo film sta tutta nei collegamenti con la mia infanzia. Dopo aver visto il film di Tomas Alfredson non ho potuto fare a meno di amarlo. Quando mi è stato proposto di farne il remake non l'avevo ancora visto, e dopo la visione ho detto ai produttori: “Questo film è magnifico, è così connesso alla mia infanzia e, sinceramente, non credo che dovremmo rifarlo”. La moda attuale negli Stati Uniti è dare vita a remake di opere svedesi, italiane, horror giapponesi cercando di renderli digeribili al pubblico americano. Ed era quello che volevo fare anche io. Motivo per il quale ho detto “no grazie”. Poi però ho letto anche il libro di John Lindqvist, che aveva scritto anche la sceneggiatura del film, e mano a mano che mi addentravo fra le sue pagine scoprivo sempre di più come anche l'opera scritta parlasse della mia infanzia addirittura più di quanto non facesse il film di Alfredson. D'altronde Lindqvist racconta la sua infanzia e lui, come me, è cresciuto durante gli anni Ottanta. C'erano tutte queste cose che affioravano e non potevo lasciarmi sfuggire questa storia.

Paradossalmente, anche se si è trattato di una sorta di remake, di tutti i film in cui potevo essere coinvolto al tempo era di sicuro quello più personale. Così alla fine ho scritto una lettera a John Lindqvist rivelandogli quanto fossi rimasto toccato dal suo romanzo e, in aggiunta al fatto di essere un notevole aggiornamento della classica storia di vampiri, gli ho anche rivelato che capivo perfettamente quanto il film fosse personale per lui e che quella era la vera ragione per cui ero interessato a girarne una mia versione. Volevo trovare un modo per riconnettermi con i miei personali ricordi d'infanzia, a quando ti sentivi solo, vessato dai bulli, a tutto il dolore che un bambino deve fronteggiare, alla confusione dell'essere adolescenti. Nel mio caso, in quegli anni sono passato attraverso il divorzio dei miei genitori, c'era così tanta rabbia fra di loro, e questa rabbia era tanto nel film, quanto, ovviamente nel libro di Lindqvist. Alla fine lui mi ha risposto scrivendo “non appena ho sentito dire che il tuo nome era collegato al progetto mi sono emozionato perché Cloverfield mi è piaciuto molto. Lo ritengo un approccio innovativo a una storia tutto sommato già nota, in stile Godzilla. Ma ascoltare le tue considerazioni e le tue connessioni personali con la storia mi emoziona ancor più. Hai assolutamente ragione, nel libro parlo della mia infanzia”. La maggior parte dei personaggi di Lasciami Entrare sono persone che, letteralmente, arrivano dai giorni in cui era piccolo, alcuni hanno persino lo stesso nome. E così ho ricevuto la sua benedizione, mi ha incoraggiato e mi ha detto “sarei molto lieto se tu facessi la tua versione del film” e siamo finito per restare un po' in contatto, mentre giravo il film. È stata un'esperienza davvero personale. Mi scuso per la lunga risposta alla tua domanda, ma questa è la vera descrizione del viaggio che ha portato alla nascita del film.

 

Con Cloverfield hai dato vita ad uno dei più originali, e importanti a mio modo di vedere, film di fantascienza degli ultimi anni, interamente connesso al mondo e all'evoluzione del web 2.0. Con Blood Story hai avuto a che fare con una storia che non era basata su materiale originale. hai avuto un approccio differente per questo film rispetto a Cloverfield?

È divertente perché paiono così diversi, ma in realtà il mio approccio è molto simile. Secondo me, nel filmmaking è importante trovare il tuo punto di vista nella storia. Quando guardo un film da spettatore voglio vivere la storia attraverso gli occhi dei personaggi. E' la più grande magia che il cinema può offrire. È viscerale, emozionale. I film creano empatia, ti mettono nei panni di qualcun altro. Con Cloverfield ho spinto questo meccanismo al limite: puoi vedere le cose da un solo punto di vista, ci sono degli elementi fuori quadro, altri non a fuoco, roba che accade, ma non viene ripresa. Tutto è implicito in quello che vedi, ma, soprattutto, in quello che non vedi. È questo il lato divertente del cinema. Con Blood Story ho avuto lo stesso approccio, anche se sapevo che sarebbe stato tutto un po' più classico. Non sarei stato limitato a una sola macchina da presa, ma, visivamente, volevo raccontare la storia dal punto di vista dei personaggi. Quando Kodi guarda il cortile, quando Richard ha l'incidente automobilistico. I film creano questa magia per la quale vieni trascinato nel mondo in cui vivono i personaggi e, per quanto diversi possano sembrare i due film, hanno molto in comune. Ovviamente Blood Story è più statico, melanconico, più focalizzato sulle emozioni intime dei personaggi, Cloverfield è tutto uno sprint, un “Oh Mio Dio, come facciamo a sopravvivere! Scappiamo, scappiamo!”. Blood Story è un film sulla solitudine, sull'adolescenza dolorosa, ma il mio stile di regia è stato sempre guidato dallo stesso presupposto che definirei hitchcockiano: il basarsi sul punto di vista dei personaggi.

 

 

Reeves ha poi raccontato che malgrado i timori di chi, giustamente, amava il film svedese originale, tutto è andato a buon fine. Il vero evento straordinario accaduto all'indomani dell'uscita di Blood Story, più che la lusinghiera recensione di A.O.Scott sul New York Times, uno dei critici più rispettati e temuti d'America, è stata la mail di Lindqvist ricevuta dal regista. Lo scrittore lo informava che aveva visionato la pellicola per mezzo di uno screening privato organizzato in Inghilterra dalla Hammer (si, proprio quella dei film di Dracula con Christopher Lee) per lui e sua moglie, di averlo letteralmente amato, e di aver festeggiato stappando una bottiglia di champagne. Si riteneva lo scrittore più fortunato del mondo ad aver visto il suo adorato libro d'esordio trasposto non in uno, ma in due bellissimi film. In quano alle differenze con il film di Alfredson, secondo Reeves, è corretto affermare che il personaggio di Richard Jenkins sia più sviluppato rispetto all'originale di Per Ragnar. L'attore ha sviluppato ulteriormente la sua parte, tanto che alla fine lo spettatore è portato a tifare, in un certo qual modo, per lui (non vi riveleremo come e perché, ndr). Curioso come l'incontro col padre cinematografico di John C. Reilly nell'esilarante Fratellastri a 40 anni sia avvenuto all'insegna della casualità. Reeves e sua moglie, la sua prima confidente e consigliera artistica, erano stati invitati a un party organizzato dalla Ouverture per L'ospite inatteso, pellicola che ha fruttato una Nomination agli Oscar come Miglior Attore per Jenkis. Entrambi rimasero molto colpiti da lui, tanto che sua moglie gli disse "penso che dovresti averlo nel tuo film". Come spesso accade, le consorti si rivelano ottime consigliere. L'apporto artistico dell'attore rende il personaggio ancora più tragico e malinconico.

Inevitabile poi un accenno riguardante il seguito di Cloverfield che tante persone chiedono a gran voce. A scanso di equivoci chiariamo subito che più passa il tempo, più le probabilità di vederlo si assottigliano. Come sottolinea Reeves, è difficile trovare dei momenti in cui potersi mettere a tavolino con Abrams e Goddard per discutere della cosa. Abrams ha appena finito gli impegni per Super 8 ed è pronto ad iniziare Star Trek 2, mentre Drew Goddard è al lavoro sul Robopocalypse, il film che Steven Spielberg vorrebbe iniziare a girare la prossima estate. Se mai dovessero realmente dar vita al film, come il regista ha già avuto modo di dire in passato, vorrebbe raccontare la stessa storia vista, magari, dal punto di vista di altre persone. "Ma questa è solo una delle possibilità. D'altronde il cinema deve regalarci diverse prospettive".

Sottoscriviamo in pieno.