Attenzione! Quest’articolo distribuisce spoiler a piene mani ed è pensato per chi abbia già visto tutti e tre i film della serie.

 

Una delle conquiste maggiori che Christopher Nolan sia riuscito a raggiungere da quando, assieme a David Goyer, ha accettato di portare sullo schermo per l’ennesima volta il personaggio di Batman, è stata quella di immaginare e realizzare una trilogia che non avesse bisogno di altri film, che gli consentisse alla fine di poter abbandonare il progetto invece che rimanerci legato e che potesse operare un racconto su larga scala senza dimenticare le esigenze dei singoli film, ovvero l’autoconclusività e l’esposizione di un problema (o nemico) primario ogni volta.

Insomma immaginare un racconto e un ragionamento la cui esposizione abbia senso in tre parti, ma anche tre film in grado di poter sopravvivere autonomamente (in caso gli incassi non fossero andati come dovevano). Più che una trilogia questo Batman è una miniserie.

Questa non è novità ma più il punto di arrivo (momentaneo) del racconto al cinema. In questi ultimi anni la serialità televisiva ha infatti dimostrato di essere in grado di battere il cinema sul suo terreno (la narrazione audiovisiva) facendosi forza delle sue armi specifiche: serialità (e quindi lunghezza) e scrittura.

Di contro il cinema, anche per esigenze commerciali, ha cominciato ad inseguirne i parametri, esasperando la tendenza al sequel o prequel, cioè alla moltiplicazione dei film con un medesimo soggetto.

Fino a pochi anni fa il sequel di rado portava avanti la trama (se non blandamente) ma più di frequente costituiva un episodio autoconclusivo. I casi in questo senso sono molteplici (Rocky, Rambo, i precedenti Batman ma anche le serie cinematografiche anni ‘30 come Bulldog Drummond o Francis il mulo parlante) mentre molte meno le eccezioni (Ritorno al futuro, Guerre stellari). Dai primi anni 2000, grazie alla spinta di alcune saghe di successo, il cinema ha cominciato ad abusare della “saga” come metodo di moltiplicazione dei guadagni e come nuova forma di racconto. Il pubblico è abituato alla serialità ora più che mai e accetta anche con gioia di avere racconti spezzati e più lunghi, perchè dalle serie tv ha imparato ad apprezzare e conoscere le potenzialità di approfondimento di un racconto lungo. Così ora anche un film solo può serializzarsi e diventare saga (è il caso dello Hobbit o dei finali di Twilight e Harry Potter).

 

Dunque il Batman di Goyer e Nolan è un grande racconto che si orchestra in tre parti: nascita, fallimento e sublimazione. La scansione non a caso non è dissimile da quella tipica delle miniserie a fumetti americane. Eppure questo Batman ha moltissimo di cinematografico anche nei contenuti.

Il tema centrale della serie è quello del controllo (e magari superamento) della paura attraverso il mito, cioè un simbolo, una figura a cui ispirarsi che non per forza debba essere effettivamente quel che tutti credono ma che possa giungere ad un obiettivo maggiore anche in virtù della propria falsità. Che poi è l’idea alla base del cinema, un’arte che inganna lo spettatore in ogni momento, raccontandogli una storia fasulla, piena di trucchi, mostrandogli persone che ne impersonano altre, in luoghi che non sono quel che dovrebbero essere, il tutto per arrivare (nei casi migliori) a dire qualcosa di estremamente vero e reale.

Batman nella visione di Goyer di questi tre film (mutuata da diverse visioni che negli anni gli autori della serie a fumeti hanno saputo dare dell’eore) è questo: un simulacro delle virtù migliori possibili, qualcuno che si erga sopra il male e lo faccia giocando con paura e simbolismo.

Il primo film, Batman Begins, era molto concentrato sulla paura. Esponeva quelle di Bruce Wayne, e mostrava un modo per superarle usandole a proprio favore. Wayne diventa Batman perchè ha un trauma relativo ai pipistrelli che supera (come simbolo del superamento di quello più grande relativo alla morte dei genitori) e proprio per questo decide di mettere paura ai criminali con quell’immagine. Il film stesso gli contrappone un nemico, lo spaventapasseri, che sfrutta la paura (in maniera più basica, matematica e semplice) per i suoi fini.

Solo secondariamente è introdotta l’idea, probabilmente all’epoca tenuta nel cassetto per eventuali seguiti, della vera motivazione che spinge un uomo normale ad indossare un costume e rischiare la vita, cioè dare un esempio. Ma subito l’idea del mito è messa in contraddizione nell’ultima scena con il commissario Gordon, al momento di presentare il villain dell’eventuale seguito, quando Gary Oldman fa presente che esiste un’escalation: più la polizia è sofisticata, più i criminali si adeguano.

 

Il secondo film, Il cavaliere oscuro, è a questo punto molto concentrato sull’idea dell’esempio. Si apre con persone comuni che imitano Batman con scarsi risultati e il cattivo, il Joker, subito dichiara di essere diventato quel che è diventato perchè Batman, con la sua comparsa, ha cambiato le cose. Le ha cambiate perchè è un freak mascherato, perchè fa cose esagerate (vola e sembra scomparire, resiste alle pallottole e sgomina bande da solo) e in ultima analisi perchè è un simbolo. Così anche Joker è un freak a modo suo mascherato da clown, progetta piani iperbolici e si erge a simbolo, diametralmente opposto a Batman, simobolo del caos.

Nel secondo film c’è pochissimo l’idea della paura come arma di controllo (solo nella sequenza delle due barche dove le persone devono superare la loro paura a favore della fiducia), molto di più è presente quella dell’ispirazione, anche grazie alla figura di Harvey Dent che dovrebbe costituire il passo successivo rispetto a Batman, un simbolo la cui identificazione non generi pericolo come per chi imita Batman, una persona rispettabile, un mito avvicinabile di cui Wayne si innamora immediatamente e nel quale, forse, intravede la sua possibile salvezza da quest’esperienza che, nella sua testa nasce con un termine (identificato anche grazie alla promessa d’amore che si realizzerà quando appenderà la maschera al chiodo).

Alla fine Batman conferma di voler essere sempre lui l’esempio, anche se negativo, di addossarsi il male perchè può farlo e lasciare alla memoria di Dent il bene. Non alla verità quindi, perchè in verità Dent avrebbe tradito l’ideale, ma alla leggenda dunque alla falsità, che è ancora una volta un altro tema molto ricorrente nel cinema. Già dai tempi del western (che del mito è stato il principale generatore al cinema per decenni) si professava l’idea che tra storia e leggenda quel che si tramanda è la leggenda.

 

Il terzo film, Il cavaliere oscuro – Il ritorno, opera una sintesi tra i due temi tentando di portare tutto ad una conclusione sensata (dico, tentando, perchè le molte disavventure del precendente film hanno impedito a Goyer e Nolan di fare alcun riferimento al Joker, cosa abbastanza inusuale in una serie così strettamente collegata).

Da una parte la storia torna a fondarsi tantissimo sulla paura, che è lo snodo di trama fondamentale, avendo una motivazione concreta (Wayne è fuori allenamento e fa bene ad avere paura) e una simbolica (il superamento della paura di morte gli consentirà di uscire dalla prigione come il suo nemico prima di lui e poter ottemperare alla “missione”). Dall’altra è legato più che mai al simbolismo attraverso la sottotrama di Harvey Dent e grazie al finale nel quale è ribadito con forza che un mito, che non sia pericoloso come Batman, serve sempre.

Ma anche senza dirlo, grazie alle virtù di un racconto lungo, Il cavaliere oscuro – Il ritorno riesce a mostrare effettivamente come in circa 8 anni di mito di Batman le cose siano cambiate. Ci sono generazioni come quelle del novello Robin che sono cresciute con quell’ispirazione, c’è meno crimine nella città e il simbolo di Batman è usato più volte come ideale di resistenza quando Gotham è presa di forza da Bane (egli stesso figura di riferimento per i suoi, che sono disposti a morire per lui). Nel Cavaliere oscuro – Il ritorno più chiaramente si afferma che la paura per eccellenza (quella del terrorismo e dell’attacco alle città) si può far fronte solo con la fiducia nel mito, con l’ispirazione.

Si può questionare sui singoli film di questa trilogia, non sempre perfetti, ma sull’insieme dei tre risulta più difficile. Perchè il rigore con cui Nolan e Goyer sono riusciti a dipingere il loro universo di Batman, in cui ogni carattere fatica ad entrare nel personaggio nonostante ne indossi i costumi (nessuno chiama Catwoman in questa maniera e il costume è solo fintamente da gatto, il Joker è solo sfregiato e più che truccato sembra un barbone, lo Spaventapasseri non si fa chiamare così nè ha un costume indossa solo un sacco perchè aiuta a spaventare), cioè lotta per farsi simbolo. Come nelle serie tv sembra che la scrittura più che la regia siano la parte più sostanziosa di questa trilogia, e questo nonostante a dirigere ci sia un regista dal tocco certo e la mano forte come Christopher Nolan che di film in film non si è fatto mancare scelte audaci.

Si è detto molto di come Nolan sembri aver diretto dei film così seri che quasi stona la presenza di personaggi in maschera, e alla luce della visione di tutti e tre i film sembra più che altro che l’idea fosse non tanto quella di una ricerca di “realismo” (sono infinte le implausibilità), quanto quella di personaggi che diventano qualcos’altro o forzatamente o contro la propria volontà. Se spesso al cinema un personaggio simboleggia qualcosa, in questa trilogia ognuno si alza in piedi e lo dichiara fieramente allo stesso modo con il quale il protagonista sbandiera di continuo il proprio ideale.

L’idea di cambiare lo stato di Gotham non è infatti un pretesto per scatenare le avventure o una caratteristica che identifica il buono (come accade nel 90% dei casi di supereroi al cinema) quanto il motore della storia, si può dire che preesista l’ideale e il suo obiettivo all’origine stessa del personaggio per Nolan e Goyer. Ancora di più sembra un ideale del quale Batman vuole convincere tutti attraverso le sue azioni e Nolan e Goyer vogliono convincere gli spettatori attraverso i tre film.

Il tema della paura come arma di controllo sociale è infatti al centro delle polemiche mediatiche degli ultimi 20 anni, specie in America dove telegiornali e politici usano la paura per indirizzare l’opnione pubblica anche più che in Europa. Dunque non sembra fuori luogo che il gancio maggiore alla realtà, il tema più pregnante di questa saga sia la lotta alla paura.

Alla fine cosa si può dire con un film o una miniserie che racconta la storia di un supereroe? A questa domanda Nolan e Goyer si sono dati la risposta più semplice e contemporaneamente la più complessa. Si può parlare di cosa significhi individuare tutte le virtù in un’unica figura risolutrice che può diventare un esempio, che conseguenze abbia la scelta di cercare di cambiare qualcosa nella società, che ruolo può ritagliarsi l’uomo forte in tempi di crisi (anche Bane si propone come tale) e infine di come proprio l’eroe, anzi il supereroe stia lì più per ispirare ognuno a tirare fuori il meglio di sè che a sconfiggere i cattivi.