Se non l’avete mai sentito nominare non vi preoccupate, è normale. Il lavoro pazzesco di Frederick Wiseman in Italia è praticamente inedito (qualcosa è uscito ma con una tale trascuratezza che è come se non fosse uscito niente). Che è un documentarista in queste ore in cui è premiato a Venezia con il Leone d’oro alla carriera lo stanno scrivendo tutti ma la realtà è che si tratta dell’ultimo (ha 84 anni) tra i giganteschi interpreti della prima fase dei documentari sonori, quella che ha preceduto l’attuale, in cui il documentario usa gli strumenti e spesso il linguaggio del cinema di finzione.

Da quando il documentario ha cambiato passo e cominciato ad avere l’audio (inizialmente non lo aveva perchè per sua natura si gira in esterni, dove capita e con attrezzature leggere mentre i microfoni erano roba pesantissima) la sua missione è radicalmente cambiata. Dal 1967con Titicut Follies, un doc spietato su un manicomio criminale, Wiseman usa quel mezzo per raccontare prima l’America attraverso le grandi istituzioni (basta guardare i titoli: Hospital, High School, Juvenile court, Welfare, Central park, Zoo) e poi il resto del mondo attraverso un minimalismo e una finta oggettività che hanno fatto scuola.

Quel che interessa a Wiseman sono le grandi organizzazioni, le studia immergendosi dentro e vivendoci per settimane e settimane riprendendo tutto (e poi montando le centinaia d’ore ottenute per mesi), se deve parlare della legge va in un commissariato, se vuole parlare d’arte in un museo e filma le riunioni del board come le spiegazioni dei quadri. Di quel che documenta sviscera il lato pubblico (ciò che vedono gli avventori e ciò che se ne sa) come quello organizzativo (c’è sempre qualche riunione, qualche discussione su come portare avanti quell’istituzione nei suoi film) ma mai mette una voce diretta.

La caratteristica più forte di Wiseman è che i suoi documentari non hanno voce fuori campo nè interviste, in sostanza non sono raccontati da nessuno, nè direttamente nè indirettamente. Nessuno parla con il regista e il regista non parla mai, quel che si vede sono scene, momenti naturali messi uno affianco all’altro. Vedere i suoi film è come essere presenti ed osservare le cose mentre si svolgono, solo che tramite il lavoro di selezione (questo lo scartiamo, questo lo includiamo) e quello di montaggio (prima si vedrà questo, poi questo e solo dopo questo) Wiseman racconta.

Con uno stile simile in molti lo ritengono una voce neutra, narratore imparziale, invece egli stesso specifica sempre che non è per nulla imparziale. Selezionando e montando dà importanza a certe cose e non ad altre e così fa le sue affermazioni. Puro linguaggio filmico al lavoro, dire senza usare parole, descrivere un’intera università (il suo penultimo lavoro: At Berkeley) con 240 minuti di scene che si sono svolte là dentro, raggiungendo considerazioni che non sarebbero esprimibili a parole.

In occasione della presentazione a Cannes del suo ultimo lavoro (National Gallery) gli è stato chiesto cosa abbia imparato di più sui musei da quest’esperienza e cosa ne pensi della dialettica tra le nozioni e la loro interpretazione, la sua risposta è stata che non lo sa dire con le parole, per dirlo gli ci sono volute tre ore di documentario.
Se la piaga di molti film è lo spiegone, il momento in cui tutto è detto a parole, Wiseman è la cura, il maestro della narrazione invisibile, uno dei più grandi artisti del montaggio in assoluto. Ciò che riprende non lo sa prevedere, lui accende le videocamere e poi guarda cosa hanno ripreso, percui è solo il montaggio la sua arma.

È facile quindi capire perchè assieme a lui (ma tra qualche giorno) il Leone d’oro lo riceverà una delle più grandi montatrici di sempre: Thelma Schoonmaker.

 

https://www.youtube.com/watch?v=wTzuYk-OPVE