Sembra che solo Venezia, tra i maggiori festival italiani, riesca ad attirare attenzione sul proprio concorso e i propri premi. Gli altri come il Festival del Film di Roma (ma questo capita anche a Torino) fanno invece fatica a mettere insieme un concorso il cui valore medio sia più che buono e che quindi scateni una competizione interessante e vivace, che polarizzi le opinioni e metta in contrasto idee di cinema che vale la pena sostenere. Quest’anno non ha fatto eccezione. La sezione Cinema d’oggi della nona edizione del Festival del Film di Roma non era di certo la sua componente indispensabile, ma era semmai Gala (il fuori concorso) e soprattutto Mondo genere (solo chicche di genere puro, dagli americani agli iraniani) a costituire una buona ragione per recarsi all’Auditorium.

Si è detto come sempre dei talent, le stelle che mancano (ogni anno ce ne sono parecchi ma lo stesso il mantra viene ripetuto senza pietà per le nostre orecchie), facendo l’errore di allargare al pubblico un problema tutto delle testate. Gli spettatori normali (non i grandi appassionati) infatti si recano al Festival una massimo due volte a manifestazione, vedono un film o un evento e se ne vanno, guardano un talent al massimo e comunque da lontano. Se si eccettuano i fenomeni generazionali che attirano occasionalmente folle oceaniche di adolescenti, che senso ha lamentare il fatto che ci fossero nomi molto noti ma non strepitosi? A chi importa davvero se non ai giornali?

Del resto non sarà nemmeno per il cinema italiano che sarà ricordata quest’edizione. Da sempre tarlo del Festival di Roma anche quest’anno la produzione nazionale non ha brillato ed è sembrato proponesse la parte peggiore di quei film che si ammantano di allure culturale. Abbiamo visto abbozzi di cinema serio che facevano rimpiangere i criticatissimi Soap Opera e Andiamo a quel paese in apertura e chiusura. Della tanto vituperata vicinanza con Venezia e Torino questa sembra l’unica vera conseguenza. Il lido prende i titoli maggiori, Torino le opere prime più impressionanti e a Roma rimane l’improponibile che tuttavia si vuole proporre a tutti i costi nella più pomposa delle maniere.

Allora è semmai per alcuni colpi ben assestati (Gone Girl, uno dei film migliori dell’anno e poco importa non ci fossero talent e che uscirà tra un po’, è un film immenso e un festival è la sua casa), qualche proiezione limite (Takashi Miike, che altrimenti difficilmente può essere visto in sala, o l’incredibile A girl walks at home alone at night) e alcune delicatezze (Eden di Mia Hansen Love) che è valso la pena stare al festival. Per quello e per gli incontri, sempre di più lo specifico di questo festival.

L’avevamo detto all’inizio della manifestazione che quella era la parte più promettente, quella in cui non si vedono film ma si esercita un’altra maniera di essere cinefili, e così è stato. Se l’evento che ha visto per la prima volta Park Chan-wook incontrare il pubblico italiano è stato deludente, ci ha pensato quello con Wim Wenders ad essere uno dei migliori di sempre della manifestazione (e ce ne sono stati di memorabili!) e molti altri sono state occasioni di vero cinema vissuto.

Se infatti i film più difficili da trovare, più radicali e meno commerciali trovano spazio soprattutto in rete (sia la loro scoperta che la loro fruizione), superando in termini di tempo i molti festival che non possono permettersi anteprime mondiali, allora le manifestazioni devono esplorare maggiormente quegli ambiti irreplicabili, allargare la passione del cinema per farla uscire dal concetto di proiezione e immergerla in forme paratestuali di fruizione. Non il film ma tutto quello che c’è intorno che lo approfondisce, lo celebra, lo racconta o lo rivolta come un calzino. In questo movimento d’allargamento di quel che un festival può fare intorno al cinema Roma è da sempre sulla frontiera. Per il resto, ancora una volta, si spera in un miglioramento.