Compirà 40 anni il prossimo 28 settembre e quindi per i canoni del cinema e della società italiana è ancora… un giovane. Eppure, con sole quattro regie di lungometraggi di finzione alle spalle, Saverio Costanzo è già adesso uno dei nostri registi più importanti e soprattutto internazionali. Sia perché a soli 29 anni vinse un Festival prestigioso come quello di Locarno con la sua opera prima Private (2004), sia perché per il suo ultimo film ambientato a New York Hungry Hearts è riuscito a lavorare con una giovane star come Adam Driver, nel cast del nuovo Star Wars: il Risveglio della Forza di J.J. Abrams.

Reduce dall’aver aiutato a far vincere la Coppa Volpi a Venezia per Miglior Attore (Driver) e Attrice Protagonista (Alba Rohrwacher) ai due interpreti di Hungry Hearts (seconda volta per lui in Concorso dopo La solitudine dei numeri primi), Costanzo si è confidato e lasciato pressare dalle domande più bislacche e curiose di BadTaste.it.

Domande che riguardano il suo sempre meno sotterraneo amore per il cinema di genere, la realizzazione del misterioso e intrigante Hungry Hearts, il rapporto con l’industria e con il mestiere di regista. L’abbiamo pressato perché avevamo mille curiosità. E le abbiamo grazie ai suoi film misteriosi, aperti e complessi. Questa è la trascrizione integrale e lineare del nostro incontro svoltosi lunedì 12 gennaio 2015 presso gli uffici della casa di produzione Wildside, fondata nel 2009 da lui, Fausto Brizzi, Marco Martani, Mario Gianani e Lorenzo Mieli.

Cominciamo da una forte curiosità. Spiare. I tuoi personaggi lo fanno moltissimo sia in Private (2004) che in In memoria di me (2007). E’ una cosa che facevi da bambino? Ti nascondevi negli armadi e spiavi la gente?

No. Devo dire di no. E’ che spiare è più semplice.

Per cosa?

Per capire le persone. Lo sguardo deve essere obliquo rispetto allo sguardo diretto. Spesso noi facciamo più fatica a conoscere e riconoscerci con lo sguardo diretto. Anche nei confronti di noi stessi… lo sguardo diretto spesso ci porta a non amarci. Se invece utilizziamo lo sguardo obliquo e cioè ci guardiamo come ci guardano gli altri… è meglio. Prendi l’esempio degli specchi che si riflettono e quindi tu ti guardi come farebbe qualcuno alle tue spalle. In quel caso vedi qualcosa di nuovo di te che in fondo è quello che guardano gli altri. Spiare per me è fondamentale. Vuol dire guardare l’altro senza che l’altro sappia di essere guardato. Spesso anche le persone più vicine a noi se non sanno di essere guardate… non so… ne cogli degli aspetti importanti.

Spiare per te è dunque così importante?

Nella mia vita… sì. Usare uno sguardo obliquo. Tento di farlo su di me. E ho imparato a farlo anche sugli altri perché mi dà un’altra dimensione.

Ti appostavi da piccolo per spiare?

No! Non sono un voyeur. Mi piace tanto guardare le persone. Mi piace chiedere delle persone… mi piace fare domande molto più che parlare di me per esempio.

Se ti dico che Hungry Hearts è un horror… mi sembra che tu non sia d’accordo. Perché la reputi una lettura così sbagliata?

Non sono convinto solo perché horror vuol dire genere puro. Che il film abbia aspetti horror come la vita… questo sì, lo condivido. Anche la vita spesso diventa un horror, come può diventare un thriller o un film romantico o una commedia quando prevale la spensieratezza e basta. Il film non è un genere puro. Io non uso le tecniche del genere puro. Non saprei proprio farlo.

Su questo ho dei dubbi…

Se mi metto a scrivere e ho quel tipo di immaginazione… entro dentro delle dinamiche evidentemente affini ma non è mai il genere puro. Vorrei sottolineare il fatto che amo moltissimo il genere puro. Ma io non penso di essere in grado di farlo.

Hungry Hearts Banner

Però Alba Rohrwacher sembra una strega nel film. E la scena in cui prende il coltello e Adam Driver la abbraccia da dietro o quando il volto di lei compare all’improvviso nell’inquadratura mentre lui dorme per comunicargli che lei ha scoperto i sotterfugi del marito… mi hanno messo veramente paura…

Hai ragione. Lei… è vero… si trasforma e Alba sa farlo perché è un’attrice che sa seguire una storia e viaggiare dentro un personaggio. Però è anche il modo in cui uno guarda che improvvisamente fa leggere il film come un horror. Ci sono dei film che stabiliscono con lo spettatore che li penetra un rapporto vivo di dialettica fisica. E spesso… questo è il cinema di genere. Un tipo di film che crea questo preciso rapporto tra spettatore e immagini. L’altro giorno ero al cinema e vedevo American Sniper di Clint Eastwood. E’ un film di guerra che sembra anche un western in alcuni momenti perché è infarcito anche di un certo patriottismo ma… ho pensato a un certo punto: “Quanto ha la guerra in testa il signor Eastwood!”. Come è bravo a farti entrare fisicamente dentro una battaglia. Lo considero un film di genere e i film di genere instaurano con lo spettatore un rapporto più fisico e meno intellettuale.

E tu pensi di non farlo con Hungry Hearts?

Considero American Sniper un film di genere e i film di genere instaurano con lo spettatore un rapporto più fisico e meno intellettuale

Quello che io provo a fare… probabilmente… ci tengo a specificare che io so affermare il dubbio e questo lo devi mettere nell’intervista. Uso sempre il condizionale. Quello che io tento di fare è… trovare un soggetto che amo che non c’entra niente con il genere e poi cerco di trattarlo non in chiave intellettuale.

E allora lo vedi che arriviamo là?

Ma ci arrivo inconsciamente. Perché il mio scopo in realtà è semplicemente quello di dare allo spettatore un’esperienza fisica. Però perché dico che non è un genere puro? Perché il soggetto dei film non è mai un soggetto che si può sviluppare attraverso l’uso di un solo genere. E’ il mio approccio.

Il tuo amore per il cinema di genere mi sembra manifesto. C’è un utilizzo classico del concetto di suspense hitchcockiana in Private (tutta la storia della bomba che lo spettatore vede e tutti gli altri personaggi, tranne uno, non vedono), c’è un mistero che sa di giallo in In memoria di me legato al malato dell’infermeria accudito da Filippo Timi e c’è un uso di sapori spaventosi ne La solitudine dei numeri primi (2010) sia quando utilizzi in colonna sonora il tema di Morricone per L’uccello dalle piume di cristallo (1969) di Dario Argento che quando assumi un mito dell’horror italiano come Antonello Geleng nel reparto scenografico. Insomma… ci sono degli indizi disseminati per tutta la tua filmografia che ci portano proprio lì…

Però non puoi dire che La solitudine dei numeri primi è un film horror del tutto. Non è solo quello… e con questo ribadisco che non penso minimamente che sia meglio o peggio di un horror. La storia e il suo sviluppo non possono essere semplicemente horror. Tradisce troppo il genere per poter essere genere. Lo dico proprio per rispetto nei confronti dell’horror.

Il bagno dove fai specchiare il povero Mattia in Germania ne La solitudine dei numeri primi sembra lo spazio spoglio e paurosamente patologico dell’antro di un killer di Dario Argento. Quel bagno… è un bagno horror. Certo i tagli sul corpo del personaggio di Mattia, poi, non aiutano…

Quello era il suo laboratorio mentre lui stava in Germania. Sì… l’estetica di quel film era totalmente presa dal genere horror e poliziesco anni ’70 italiano.

Questo ti rende tra i registi italiani più insoliti del momento. E i tuoi film sono freschi e originali per questo motivo…

Il cinema italiano è pieno di personalità molto eccentriche. Ci sono una decina di registi in Italia che io seguo con passione. Non sono pochi.

Hungry Hearts - Adam Driver

La madre di Adam Driver in Hungry Hearts è Roberta Maxwell, la quale era in Psycho III accanto a Anthony Perkins. Anche questo è un caso?

Sembrerò scemo agli occhi dei lettori di questa intervista… ma è un caso. Una mia amica regista mi ha raccontato che un produttore le diceva sempre: “Non ti preoccupare di chi andrà a vedere il tuo film, perché non credere di essere unica nel gusto. Tu fai il tuo film e poi qualcuno come te ci sarà. E qualcuno come te amerà il tuo film”. Per chi come me è davvero all’inizio di un percorso… è così. Può essere che ci siano degli autori che amo e che sento vicini a me. Io ora non faccio una citazione di Psyco chiara nel film ma evidentemente nel gusto sono vicino a Hitchcock. Evidentemente deve essere così.

Avresti preso un altro attore più piccolo fisicamente rispetto ad Adam Driver per il ruolo del marito Jude?

L’altezza di Adam ha comportato un modo di inquadrare diverso. Spesso la sua altezza ha condizionato l’inquadratura

Sì. L’altezza di Adam ha comportato un modo di inquadrare diverso. Spesso la sua altezza ha condizionato l’inquadratura. Sì… avrei scelto un attore più basso. Ma non si può avere tutto dalla vita.

Secondo me hai avuto tutto invece perché Adam e Alba sono molto carini da vedere uno vicino all’altro…

Questo è veramente tutto il senso del film. Loro hanno saputo per capacità e talento rendere credibile l’amore. Guarda che è una cosa difficilissima. Anche loro due, evidentemente, sono dei tipi umani simili. Sono due attori che cercano nello stesso modo un po’ la stessa cosa. Sono due persone serie e coraggiose. Vogliono fare un mestiere non per farlo ma per testimoniare qualcosa… il che è diverso da voler fare semplicemente l’attore.

Beh… non pensi che il fisico possente di Driver aiuti ancora di più lo spettatore ad entrare in connessione con lui visto che Jude vuole che suo figlio cresca sano come è cresciuto lui?

Beh sì certo… questo è un pensiero che tu hai fatto in base ad Adam e che non avresti fatto se non ci fosse stato. Lo vedi la dialettica come è interessante?

Ci sono registi che chiudono il significato di più e registi che lo fanno di meno. Sei quindi conscio di appartenere totalmente alla seconda categoria?

Questo è il mio modo di esprimermi ma questo non vuol dire che un  cinema più immediato sia peggio. Mi rendo sempre più conto che succede questo con i miei film anche… malgrado me. Mi spiego meglio: a volte devo dire che è quello che non voglio perché non ho problemi a confessarti che io ogni tanto nutra l’ambizione di piacere a tutti ed essere capito da tutti. Mi accorgo ormai dopo quattro film che non è così. Vince sempre il libero arbitrio dello spettatore.

Quanto ti senti cambiato come regista da Private? Hai diretto quattro film molto diversi. In cosa pensi di essere cambiato di più?

Ho imparato a fare questo mestiere facendo questo mestiere. Non ho studiato cinema e non avevo coscienza del cinema prima di Private. Facevo documentari e lavoravo con le tecnologie leggere. Questi anni ho preso coscienza del cinema e contemporaneamente di me come regista. Ogni film è scoprire qualcosa di nuovo. Con questo ultimo film ho cercato di tornare a un’inconsapevolezza e a un’ignoranza, per arrivare a un’emotività più personale e più mia. Una produzione piccola.

Ti aveva scottato l’esperienza di sistema di traduzione di un best-seller come La solitudine dei numeri primi presentato in pompa magna in Concorso a Venezia?

No… anzi! Mi ero divertito moltissimo a fare quel film. Era proprio una cosa mia anche quella cosa là. Con Hungry Hearts volevo ancora guardare quanto era vivo il mio istinto di regista. Volevo stare in una situazione più difficile e meno controllabile in cui l’istinto dovesse prendere il sopravvento. Ho capito che non se ne può fare a meno. Il mestiere di regista è questo. In un mondo che può essere controllato e in un certo senso addomesticato come il cinema industriale… l’istinto è importante che sia libero. Un mio amico arabo mi disse dopo aver visto il mio secondo film: “Bravo… un altro buon esercizio. A quando un vero film?”. Io penso che abbia ragione lui. Dirti che ancora non ho capito niente del cinema e del mestiere di regista… è quasi riduttivo! Io mi sento molto in discussione. Ogni volta sempre di più.

Hungry Hearts

Hungry Hearts mi sembra sia stato molto istintivo in fase di produzione. Quanto è stato istintivo, invece, in fase di montaggio?

Al montaggio è andato tutto molto liscio. Una riscrittura del film complessa ma liscia. La prima volta che ho visto il film ho addirittura pensato che fosse più preciso rispetto a quello che mi sembrava mentre lo giravo. Quando sai quello che vuoi raccontare e l’hai scritto… tutti capiscono, tutti danno il loro meglio. Perciò succedono delle cose ancora più grandi di quello che pensavi. Ti faccio un esempio: ne La solitudine dei numeri primi bisognava scegliere prima il divano dove si sarebbe seduto il personaggio di Alba, poi il colore del divano e poi i vestiti del personaggio. Io ho scelto un accappatoio rosso con la costumista Antonella Cannarozzi e poi, con Antonello Geleng, una tappezzeria verde. Erano dei suggerimenti completamente scissi perché indaffarati come erano… la Cannarozzi e Geleng non si erano nemmeno parlati. Ma lo vedi che succede? L’immagine poi conclusiva di questa ragazza con il divano e i costumi… era perfetta. Mentre giravo quel film mi resi conto che, a prescindere da quello che uno spettatore può pensare circa la qualità di quella pellicola, noi come troupe avevamo capito bene cosa stavamo facendo. Quando si incaglia qualche cosa in un film è perché in quella comunità che lo sta facendo qualcosa non è chiaro e, di solito, è sempre colpa del regista.

Quando il regista è insicuro tutti sono insicuri?

Esattamente. E quando tu sei sicuro, tutti sono sicuri. Il regista deve dare la partenza. Quando quel racconto è chiaro per lui di conseguenza sarà chiaro anche per gli altri. Nella postproduzione di Hungry Hearts, devo dire, mi ha colpito subito la precisione di un lavoro che a volte mi sembrava più grande di quello che io stesso avrei mai immaginato mentre giravo il film.

Il bambino sembra già vecchio e triste. Raramente vedo bambini così perfetti in un film. E tu mi vuoi dire che anche questo elemento è arrivato un po’ per caso?

Tu leggi le biografie dei grandi, ma proprio dei grandissimi, e tu leggi che la metà della loro opera… è culo

Noi abbiamo avuto la possibilità di vedere solo due coppie di bambini per i mezzi che avevamo e per il tempo che avevamo. Siamo stati veramente fortunati perché questo bambino ha una faccia perfetta. Però guarda che il fattore fortuna è essenziale. Tu leggi le biografie dei grandi, ma proprio dei grandissimi, e tu leggi che la metà della loro opera… è culo. Ma il culo ce l’ha chi è coerente. In quel caso un artista riesce a fare sì che il culo intervenga in suo aiuto. Sai quante volte mi sono trovato disperato, durante la preparazione di Private, quando non trovavo la casa della famiglia protagonista? Mi ricordo che a un certo punto dissi al produttore Mario Gianani: “Mario… guarda… te lo giro anche in due appartamenti a Piazza Risorgimento!”. Perché tanto la storia c’era e il film c’era. Era il sistema di Dreyer, il quale arrivava a togliere-togliere-togliere perché tanto la storia c’era. Dreyer riempiva una cucina e poi toglieva-toglieva-toglieva per rimanere con quello che veramente serviva in quella cucina. A volte invece mi sono trovato a prendermi troppo sul serio… e a quel punto mi incaponisco così tanto nel voler ottenere qualcosa che svanisce tutto e svanisce soprattutto quell’istinto.

Qual è il film dove hai sentito più questa frustrazione? Forse La solitudine dei numeri primi?

Forse… sì. Sentivo che c’era un’ambizione produttiva molto forte e in gran parte l’ambizione era anche mia. Io volevo farlo perché il libro era stato un grande successo. Cioè mi spiego meglio: mi interessava che una storia così difficile fosse potuta diventare così popolare presso i lettori italiani. Ho rispettato la storia nel suo cuore… però questo ha significato che ci fosse un investimento mio personale meno forte rispetto agli altri film e perciò certe volte in me ha prevalso l’aspetto intellettuale invece che quello emotivo. Negli altri film c’erano cose che avevo cercato di più.

Torniamo a Hungry Hearts. Gli amici della coppia… hai mai pensato di farli entrare di più nel film?

No. L’esterno rappresentato dagli amici prende circa venti minuti di film. Poi a un certo punto il film voleva raccontare altro. Il film è preciso per chi è newyorchese. Questo tipo di rapporti amicali sono molto newyorchesi. Quel tipo di socialità è di quelle parti. Jude ha una madre ma non ti chiedi troppo che tipo di rapporto abbiano.

Eh no! Io mi sono molto chiesto che tipo di rapporto avessero perché Jude ogni volta che la mamma entra in campo… è profondamente disturbato. Sento che lei gli ha fatto qualcosa di brutto da piccolo. Te lo chiedo: che gli ha fatto?

Devo confessare che la backstory… c’è. Il padre di Jude era un cacciatore e costringeva il piccolo Jude ad uccidere gli animali senza che lui lo volesse. La mamma non ha mai fatto niente. Questo è quello che io mi ero detto. Jude quindi si era liberato e non voleva vedere più di tanto questa donna che in passato era stata la vittima passiva, e complice, di un uomo violento. Mi è venuto un colpo quando ho visto American Sniper… perché anche l’origine del protagonista Chris Kyle nasceva da un padre che lo portava ad ammazzare i cervi da piccolo. E’ la piena tradizione culturale americana come anche Il cacciatore di Cimino insegna. Questo era quello che io nella testa mi ero creato.

Cioè… appena hai pensato di adattare il romanzo di Marco Franzoso Il bambino indaco negli Stati Uniti… hai pensato… adesso devo mettere qualcuno che ammazza i cervi?

No! Il cervo è arrivato con la casa. Prima c’era la balena.

La balena?!

In Italia… c’era la balena ma poi quando sono arrivato in America… diciamo che la balena era parecchio complessa da realizzare produttivamente. Allora l’animale è diventato il cervo nel momento in cui siamo arrivati in questa casa della madre di Jude animata da cervi appesi alle pareti.

Beh… grande elasticità…

Ma questo lo fanno tutti i registi penso. Le location parlano. Guarda… a me piacerebbe fare tutto un film di costruzione. Mi piacerebbe da morire. Sarebbe un sogno per me… ma noi dobbiamo sempre andare a cercare naturalmente delle location e le location parlano. Noi non possiamo ricostruire un muro. Stanley Kubrick ricostruiva l’Overlook perché lo poteva fare. Noi dobbiamo sempre superare delle difficoltà fisiche. Per superare quel problema devi fare in modo che la location entri nel tuo film e che la location diventi il tuo film.

A proposito di Kubrick… In memoria di me sembra un film molto costruito, pensato e con una location che hai voluto fortemente… o no?

Io mi considero kubrickiano perché Kubrick è il massimo per me per quanto riguarda l’arte cinematografica

Sì. E’ un film palladiano più che kubrickiano. Ho girato dentro l’isola di S.Giorgio e il monastero di S.Giorgio è fatto dal Palladio. Kubrick lo amava moltissimo come architetto. Io mi considero kubrickiano perché Kubrick è il massimo per me per quanto riguarda l’arte cinematografica.

Quindi In memoria di me è generato anch’esso dalla location?

Ma certo. E’ sempre così. Il film è una costruzione e prende il corpo che prende. Antonioni aveva pitturato gli alberi a Ravenna per Deserto rosso… adesso… tutti vorremmo cambiare gli alberi e cambiare le luci della città. Io per esempio odio le luci di Roma di notte. Ci dobbiamo anche adattare. Vero è, senza dubbio, che Dario Argento andava a cercare sempre un po’ le stesse cose e quindi dopo un bel po’ di film è possibile ravvisare un suo gusto preciso per le location.

Musica. Dopo il sodalizio con Alter Ego per Private e In memoria di me, arriva Mike Patton per La solitudine dei numeri primi mentre ora ecco Nicola Piovani per Hungry Hearts. Non ti sembra che la tranquillità “piovanesca” non c’entri niente con Hungry Hearts?

Non sono sono d’accordo. Guarda che Nicola, oltre ad essere uno degli incontri umani più belli che ho fatto in vita mia, mi ha dato un coraggio incredibile per il film. E’ veramente un uomo generosissimo. Lui per esempio voleva raccontare tutta la sequenza di Mina che porta al mare il figlio stimolando nello spettatore una tensione. Lui aveva realizzato della roba niente affatto romantica o lieve come è Nicola.

Non sono un musicologo ma Piovani ormai si riconosce dopo due note…

E’ vero. Nicola ha una lievità tutta sua. Ed è per questo che lo convinsi a spostare il senso della musica per quella scena fondamentale. Io avevo bisogno che il pubblico durante quella gita al mare di Mina spostasse l’asse del suo sospetto. Ho chiesto a Nicola proprio la sua lievità per suggerire allo spettatore che lei non stesse andando ad ucciderlo. E’ come se sussurrassi nell’orecchio dello spettatore: “Prova a pensare a qualcos’altro”. Ho provato a comunicare proprio questo attraverso quel tema preciso. Penso che tutta la musica di Nicola nel film serva a spostare l’asse del tuo sospetto nei confronti di Mina.

Però scusa… poi usate dei colpetti di archi per comunicarci un terribile sospetto nei confronti di Mina. Allora che cosa dobbiamo pensare? Che quei colpetti di archi siano il punto di vista di Jude?

Quelli io li chiamo “i tarli”. Nel linguaggio del nostro film io li chiamo così. Sono dovuti al sospetto. È il sospetto di lui. Certamente. Diciamo che… ci sono delle cose nel film musicalmente semplici, come quei colpetti di archi, che però a me piacciono. Un po’ di “volgarità” musicale nel cinema a me piace. Volgarità in senso etimologico… come popolare. Ma infatti devo ammettere che a me le colonne sonore del cinema di genere mi piacciono tanto.

E lo vedi che torniamo lì? Bernard Herrmann, John Williams, Elmer Bernstein…

Ma anche Ennio Morricone le cose più belle le ha fatte per il cinema di genere. Io per esempio quando sento la musica di John Williams nei film di Spielberg… impazzisco. La colonna sonora di E.T. è una delle più belle per me. E’ il puro fantasy. Adoro anche le musiche usate da Walt Disney. Sono concetti di opere, diciamo, esplicite. In una forma chiaramente più piccola e cioè dentro i miei film che poi non ce la fanno mai ad essere così lirici… c’è sempre un gusto, una sottolineatura esplicita.

Come chiudiamo questa intervista? Un aggettivo per ogni tuo film?

Oh mio Dio. No. E’ troppo affermativo. Ti prego… no!

ATTENZIONE: sotto l’immagine, un’ultima domanda “spoiler” sul finale del film.

 

hungry-hearts

 

L’immagine finale ha messo molto in discussione il mio modo di vivere il film. Perché chi è morto era stato in luce fino a un attimo prima e chi è vivo ora è solo un’ombra quasi deforme. Mi dici cosa c’è dietro quell’ultima devastante inquadratura? C’è un collegamento con l’ombra deforme alla base del mistero di In memoria di me?

No. Sinceramente non saprei se c’è un significato. Nel caso di Hungry Hearts avevo in mente un’immagine doppia: un bel tramonto, un padre e un figlio però anche una grande assenza. Quel sole, quel camminare alle spalle… è veramente come lo guardi. Per me è un’immagine altrettanto triste perché senti che c’è un’assenza profonda e ti immagini quella che sarà la vita di questo ragazzino negli anni a venire. Secondo me quello che ti ha dato più fastidio e ti ha messo più in discussione è che tu in quel momento hai avuto un pensiero per il personaggio di Alba. Questo è sicuramente l’effetto che ha su di me quel finale. Per me è fondamentale che non ci sia un’entrata nel film semplice. Ci deve essere sempre un mistero nei miei film. Ma penso che sia così anche per molti altri miei colleghi.