La parte più celebrata e riconoscibile della Hollywood contemporanea viene dal circuito indipendente degli anni ’80 e ’90, Spike Lee non fa eccezione. Molti si sono integrati bene nel sistema degli studi di produzione, fanno film su commissione e ogni tanto qualcosa di più personale, alcuni hanno messo in piedi una propria casa di produzione per essere più liberi, altri ancora non si sono mai davvero ambientati. Con l’entrata in gioco delle tecnologie di distribuzione e finanziamento di internet molti stanno sentendo il richiamo della libertà dei loro esordi, fare film svincolati da qualsiasi pressione se non la propria. Alcuni lo stanno proprio sperimentando, come Spike Lee, che ha fatto un film piccolo ma al quale, si intuisce, teneva molto senza mezze misure, totalmente libero.

Con il senno di poi era in effetti difficile trovare un produttore (e un distributore) disposti ad investire in Da sweet blood of Jesus le cifre necessarie per realizzarlo come lo voleva l’autore e farlo girare in un numero congruo di sale perché venisse visto. È probabile allora che prevedendo come la realizzazione di un’opera simile si sarebbe tramutata in un’Odissea di pressioni, cambi, richieste di denaro in giro per Hollywood e probabile insoddisfazione al botteghino, il regista di Fa’ la cosa giusta e Inside Man abbia scelto di sperimentare l’indipendenza totale.

Da sweet blood of Jesus, uscito circa una settimana fa su Vimeo On Demand (10$ il noleggio e 15$ l’acquisto con download ma solo se si risiede in territorio statunitense) è infatti il film per il quale Spike Lee aveva raccolto fondi attraverso Kickstarter circa un anno e mezzo fa (1,4 milioni di dollari per la precisione). Nessun executive ha messo bocca, nessuno se non l’autore stesso ha preso decisioni.

La prima scoperta per noi è quanto molti dei “mali” che attribuiamo alla produzione americana non vengano dagli studi o dalla fame di denaro ma siano una caratteristica della maniera in cui il pubblico vede e sceglie i film o in cui gli autori li immaginano. Per arrivare a produrre Da sweet blood of Jesus è stata infatti necessaria la forte creazione di aspettative a partire da niente (come fa qualsiasi studio con la promozione dei propri film che parte dall’annuncio del titolo e dei primi poster) e in più si tratta di un remake. Cioè avendo la più totale libertà Spike Lee non solo ha dovuto promuovere il film prima di farlo ma anche scelto di rifare un film del passato, distruggendo la convinzione generale che la mania dei remake sia interamente dovuta ai desideri commerciali dei grandi studi. Il film riprende Ganja & Hess (1973) di Bill Gunn, un’opera dura dal preciso sottotesto politico sulla sempre più invadente assimilazione della cultura afroamericana all’interno di quella bianca. In alcuni punti ne copia inquadrature e dialoghi pedissequamente, come un calco, in altri si prende molte libertà; che sia stato un film determinante nella formazione di Spike Lee quindi lo si intuisce immediatamente dal modo in cui il regista lo rispetta da un lato e lo fa proprio dall’altro. Non c’è nessuna concessione al cinema più commerciale e una volta tanto vediamo Spike Lee ragionare senza pensare al pubblico. Il risultato però non è esaltante.

 

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La storia di un professore afroamericano che, studiando un’antica civiltà africana, entra in possesso di un artefatto e da quel momento comincia a bramare di nutrirsi di sangue (senza essere un vampiro ma contagiando altre persone) e finisce insieme alla fidanzata di un collega che ha ucciso, è un lungo viaggio sul confine tra radici nere e modernità bianca all’insegna dell’insanabile contrasto e, ovviamente, dell’assimilazione. Il sangue bevuto del resto si presenta come la più chiara delle metafore.
Molto allegorico, compassato e forse eccessivamente sofisticato, certamente non sarà ricordato come il film più memorabile di Spike Lee, nonostante sia animato da un’invidiabile voglia di “fare cinema”. Più interessante quindi è capire i termini in cui è stato realizzato e la qualità. Alla fine grazie ai soldi di Kickstarter (al netto delle spese di transazione, della commissione che si prende il sito e dopo averli usati per pagare la spedizione e realizzazione dei benefit promessi ai donatori) e a quelli provenienti da altre fonti di finanziamento più canoniche per un lungometraggio, come ad esempio il product placement, il film non ha risentito della scarsità di mezzi, è stato girato in 14 giorni ed è un’opera visivamente impeccabile, inevitabilmente imperniata su attori sconosciuti (ma non per questo meno bravi dei conosciuti) e sotto la media forse soltanto per quanto riguarda l’impianto musicale.

Ma anche al di là della qualità possibile il punto è che Spike Lee aveva poche alternative. Al momento infatti l’industria hollywoodiana ha completamente abolito i film da 20 milioni di dollari, quella fascia (molto meno onerosa dei film grandi ma più corposa degli indipendenti, che si muovono ben sotto i 10 milioni) non esiste più, perché troppo costosa per portare vero guadagno con una piccola uscita e troppo economica per potersi meritare il battage pubblicitario necessario ad una distribuzione maggiore. Dunque in un mondo in cui o si fanno film molto grandi o se ne fanno di piccolissimi, Spike Lee ha deciso di farne uno minuscolo ma alle proprie condizioni e traendone il massimo guadagno personale possibile. L’operazione è già in pari (i soldi raccolti sono stati usati per fare il film) e nella peggiore delle ipotesi il regista personalmente non ci guadagnerà molto (anche se con 200.000 noleggi già sarebbe a poco meno di 2 milioni di dollari), ma la sua carriera comunque non ne rimane intaccata, visto che tutto ciò si svolge al di fuori degli studi e che imdb già lo dà al lavoro su 3-4 progetti diversi di cui uno piuttosto grande.

 

 

Ora che è stato ampiamente e ormai inequivocabilmente stabilito come la strada del crowdfunding (che per molti versi funziona come una prevendita) sia efficace e percorribile dai grandi autori, rimane da chiedersi quanto a lungo sia sostenibile. Quanto potrà raccogliere il prossimo film in crowdfunding di Spike Lee o, dovesse diventare una strategia scelta da altri autori, quanto raccoglierà l’ennesimo film piccolo di un regista americano al di là delle donazioni della propria schiera di fan?

Ad Hollywood in molti pensano che davvero il crowdfunding sia il futuro (lo dice sempre Bret Easton Ellis, tra i primi a sperimentarlo professionalmente, assieme a Paul Schrader, con The Canyons), l’unica questione ancora da stabilire però è quanto il sistema viva dell’eccitazione generale portata dalla novità e quanto possa diventare una routine per gli spettatori quella di investire in un film sulla base di una proposta, come fanno i produttori.

Inoltre va aggiunto come fino ad oggi i risultati del crowdfunding d’autore non siano stati esattamente dei successi commerciali. The Canyons non è piaciuto molto e così Wish I was here di Zach Braff.

Da sweet blood of Jesus similmente non sembra fatto per un pubblico vasto (resta da vedere come sarà Anomalisa di Charlie Kaufman), ma cosa succederà all’arrivo del primo grande successo di pubblico proveniente dal crowdfunding e distribuito in maniera indipendente? Cosa succederà quando qualcuno sarà in grado di volgere su di sè tutta l’attenzione senza passare per le strade tradizionali?