Ci sono due modi di guardare al Rapporto “Il mercato e l’industria del cinema in Italia”, edito dalla Fondazione Ente dello Spettacolo. Si può vedere con ottimismo il fatto che, nonostante un calo negli investimenti non si sia registrato anche un calo nelle produzioni oppure con pessimismo il fatto che pare che nulla, nemmeno la fine dei soldi, ci libererà da una sovraproduzione che poi le sale non sono in grado di assorbire.

La chiave di volta di tutto questo equilibrio pare essere il tax credit, misura che consente alle produzioni nazionali agevolazioni fiscali così convenienti che anche gli studios americani hanno ricominciato a venire in Italia a girare. Non a caso sempre più paesi stanno lavorando nella direzione dell’approvazione di norme simili e di questo non si può che essere contenti.

Quel che emerge dal rapporto di quest’anno infatti è che, come molti altri paesi in Europa (quasi tutti), i nostri investimenti cinematografici sono tracollati dal 2009 al 2014, ma come quasi nessuno la nostra produzione è invece aumentata. Di fatto rimaniamo al 12esimo posto (mondiale) per incassi, dopo molti paesi europei (ma attenzione, qui più importante del dato assoluto è quello relativo, bisogna anche vedere lo storico, se siamo scesi o saliti e la realtà è che siamo stabili). La domanda, ma di certo non da oggi, gira intorno a chi veda tutti questi film, a chi siano indirizzati e quanto senso abbia continuare a produrre con questa potenza. Se non ci sono dubbi sul fatto che una cinematografia sana è una che produce molto, è anche impossibile non chiedersi se davvero ci sia bisogno di un gran numero di film che passano inosservati in sala.

Lo stato del cinema italiano attuale è che con sempre meno soldi giriamo sempre più film che pochi vedono

Nel dettaglio il rapporto mostra come a fronte di un botteghino totale di 800 milioni di dollari siamo, assieme al Brasile, i 12esimi in una scala mondiale nella quale dominano gli Stati Uniti (circa 10 milioni) seguiti dalla Cina (circa 4 milioni) e poi Giappone (2 milioni), Francia (1,8 milioni), Inghilterra e India a parimerito (1, 7 milioni), Corea del sud, Germania, Russia, Australia e Messico prima di noi. In questa contingenza i nostri investimenti sono diminuiti del 26,4% rispetto al 2009 fino a giungere a 323 milioni di euro spesi l’anno scorso, eppure come si diceva la produzione (cioè il numero di film fatti), sempre rispetto al 2009, è cresciuta del 20%, abbiamo prodotto 201 film (i primi in Europa se non consideriamo le coproduzioni), contro i 1966 del primo classificato (l’India). Il pubblico invece, rispetto al 2013, è calato del 4,5%, anche se questi primi mesi del 2015 fanno registrare una tendenza contraria, un aumento degli incassi del 9%.

A dirimere la questione se sia un bene o un male produrre così tanto a fronte di un calo degli investimenti e di un botteghino non esaltante, forse dovrebbe intervenire il gradimento. Purtroppo, nonostante sia difficile non parteggiare per un entusiasmo realizzativo che spinge a fare film nonostante le ristrettezze di budget sempre più evidenti, in buona sostanza a fare cinema sempre di più con sempre di meno, è anche vero che pure i pochi affezionati che vedono molto cinema italiano difficilmente mostrano un grado di soddisfazione sufficiente a giustificare una simile massa. Ovviamente il gradimento è difficile da misurare ed è totalmente arbitrario (nel senso che ognuno non può che basarsi su quello che legge, sulle persone con cui parla e quello che sente, comunque una visione parziale), lo stesso non sembra esserci un generale consenso intorno al cinema italiano che vada più in là di alcune singole imprese molto incensate (spesso giustamente, si veda il caso del bell’esordio di Duccio Chiarini, Short Skin, altre volte in maniera meno spiegabile come il molto convenzionale Noi e la Giulia).

Insomma lo stato del cinema italiano attuale è che con sempre meno soldi giriamo sempre più film che pochi vedono e, ci sentiamo di poter dire, solo in rari casi piacciono.

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