Per realizzare Truth ha dovuto ricostruire un fatto vero, lo scandalo dello scoop fatto da 60 Minutes nel 2004 sulle raccomandazioni che permisero a George Bush jr. di evitare di partire per il Vietnam che fu però poi smascherato dalla rete come bufala, e quindi James Vanderbilt è stato il primo ad essere sottoposto ad un fuoco di critiche. Manipolando materia scottante per il suo esordio in un certo senso è finito scottato.

Alla Festa del cinema di Roma l’abbiamo incontrato per capire quali fossero le intenzioni, dove era indirizzata la sua curiosità e quanto del film sia stato condizionato in fase di produzione.

La storia per come la racconta, complice l’essere basata sul libro scritto dalla protagonista stessa, ha una chiara idea di quale parte prendere, lei che cosa ne pensa invece?

JAMES VANDERBILT: Quei documenti incriminati ad oggi ancora non possono essere considerati nè veri nè falsi, è impossibile provarne l’autenticità. Le accuse a Mary Mapes [la protagonista ndr] uscirono ancora prima che l’episodio finisse di essere in onda, evidentemente c’era anche qualcuno di “condizionato”. Come regista però mi interessa proprio il suo essere un mistero che non si può risolvere, del resto era così anche per Zodiac [che Vanderbilt ha scritto ndr]. Il libro di Mary è certamente stato il mio punto di ingresso nella storia, lei è davvero un gran personaggio, una donna al massimo della sua carriera che possiamo guardare crollare. Inoltre trovo molto interessante il processo con cui si fanno le notizie e quale sia in tutto questo la funzione del broadcaster.

Il film però si chiamerebbe Truth, “verità”….

JV: Il film si chiama così perché è ciò che tutti vogliono raggiungere ed è una materia illusiva ma anche la cosa che conta di più per un giornalista. Credo che il giornalismo investigativo sia sempre più difficile da fare per la mancanza di pazienza, soldi e per l’aumentare della velocità a cui si muovono i media, molto diversa da 10 anni fa per non dire 20.
La velocità con cui internet ha colpito questa storia è quella che viviamo oggi. Il giornalismo è una professione incredibile ma non ben pagata, una vocazione importantissima.

Film come questo o Spotlight, ma anche la serie Newsroom, mostrano redazioni integerrime a caccia di una verità obiettiva. Si tratta di una reazione al fatto che oltre redazioni oggi sono apertamente schierate?

JV: Non so. Quando ero più giovane avevo la sensazione che i miei punti di vista fossero messi alla prova dal giornalismo ma questo c’è sempre di meno perché oggi i media cavalcano le nostre opinioni, cosa che in un certo senso è un problema. Io sono cresciuto con gente come Dan Rather [protagonista del film ndr.] mentre ora ci sono molti punti di vista e molte voci, non direi mai che avere molti punti di vista sia un male ma credo che sia diverso e ci stiamo adattando alla tecnologia. Ora dopo dieci anni possiamo capire quell’incidente, capire come sia andata, forse tra dieci anni potremo capire questi anni.

Avere un cast così importante al suo esordio è stato difficile?

JV: Non credevo che Cate Blanchett avrebbe mai accettato perche arrivava da un Oscar e io sono un esordiente, invece ha accettato subito, poi ho scritto una lettera lunghissima a Robert Redford e lui mi ha addirittura chiamato a casa: “Ehi Jamie sono Bob Redford” mi sono sentito male. Spesso gli attori che sono i tuoi eroi non sono all’altezza di quel immagini ma loro si. Loro non si erano mai incontrati ed erano eccitati all’idea di lavorare insieme ma più di tutti io e Cate eravamo eccitati all’idea di lavorare con Redford, tutti sono fan di Bob. Guardarli lavorare insieme e ascoltarsi è stato fantastico.

Ma quella parte l’avevi proprio scritta per Redford no?

JV: Si anche perché un po’ lo conoscevo ma quel che mi aveva sorpreso è come avesse la stessa essenza di Dan Rather. Sono in giro da così tanto tempo che hanno un posto nel firmamento americano come pochi altri, possiedono una signorilità da gentleman tutta loro pur essendo diversi. Bob odia indossare la cravatta perché è un cowboy, ma io volevo che lo interpretasse perché il bagaglio che porta (i suoi vecchi ruoli) si sarebbe tradotto bene. Non volevamo di certo un’imitazione di Rather, perché avrebbe spostato tutto l’asse su Redford che imita Rather, per questo non abbiamo usato nemmeno del make up ma solo un po’ di accento texano.

Quello poi fu uno dei primi casi in cui internet si mobilitava….

JV: Si e credo che il tipo di critiche che Mary ha ricevuto siano arrivate soprattutto perché è una donna. I commenti che si vedono nel film sono tutti veri commenti e come si capisce subito venen presa di mira la sua sessualità, il suo look e la sua desiderabilità. Non credo che gli attacchi sarebbero stati quelli se fosse stata un uomo. E poi quello è un ambiente molto dominato dai maschi, uno in cui lei era arrivata in cima, anche per questo molto di quello che l’ha colpito era dovuto al sesso.

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