Chi l’avrebbe mai detto che un cineasta in grado di tirare fuori un film come Mad Max: Fury Road avrebbe guidato una giuria capace di un palmares così antiquato, così rivolto indietro invece che avanti.

Quest’anno in gara a Cannes c’era più di un film fieramente contemporaneo e un paio che sapevano guardare in avanti, al futuro del cinema. Come sempre poi molti altri erano invece rivolti indietro. Che esistano film simili in concorso non è un problema, non si può avere una competizione di sole palme d’oro, sarebbe folle, ma che poi siano questi a portare a casa il premio che ogni anno consacra il film più importante dell’anno, sinceramente è una stortura che si dovrebbe evitare. Meglio premiare un film assurdo come Lo Zio Boonme, se non altro diverso, che uno insipido e superato come I, Daniel Blake.

Con questo riconoscimento Loach va a due palme d’oro vinte in carriera ed entrambe con due film (questo e Il Vento che Accarezza l’Erba) che all’epoca della loro realizzazione erano già interpreti di idee, forme e contenuti vecchissimi.

La classica storia di un esponente della working class, vessato dallo stato (che poi magari gli altri paesi avessero un welfare state come quello mostrato e criticato!) che grazie ai suoi pari cerca di mantenere la propria dignità, non solo suona nostalgica con ogni sua ruffianeria, ma è anche messa in scena con il minimo dell’inventiva e il massimo della ripetizione di luoghi comuni di provato successo.

Per fortuna che Xavier Dolan e il suo Juste la Fin Du Monde almeno ha portato a casa il Gran Premio Della Giuria, il secondo di fila per lui dopo quello per Mommy, di fatto la medaglia d’argento. La disparità di sforzo, audacia e risultati tra questo film e quello di Loach è oceanica, e con tutta probabilità il botteghino se non altro lo mostrerà.

Dietro Dolan il premio alla regia ex equo mostra bene il doppio volto di questo palmares. Da una parte Mungiu e il suo film effettivamente contemporaneo, che si pone le domande più corrette per i tempi che viviamo, ma soprattutto per dove si dirige il cinema, e lo fa con uno stile semidocumentarista che è la vera frontiera del linguaggio di oggi. Dall’altra però anche Assayas.

Ancora, la sottovalutazione di Andrea Arnold e del suo bellissimo American Honey fa un po’ ridere. Premio della giuria per lei, medaglia di bronzo, ma ancora questo era un film che avesse preso la palma d’oro avrebbe sancito bene cosa sia possibile fare oggi con un film, raccontare personaggi inediti in situazioni paradossali con grande partecipazione. Filmare come fa lei, così da vicino, un personaggio così peculiare in una storia che sembra in grado di manipolare le figure classiche del cinema drammatico trovandole per strada, nella vita vera, nelle camere di motel è non solo affascinante e accattivante ma anche fonte d’ispirazione. American Honey sembra quella parte della vita vera che somiglia ai film e questo per molti versi è quel che cerca di fare oggi il cinema più sveglio.

Infine è incomprensibile il premio alla miglior attrice andato a Jaclyn Jose, protagonista di Ma’ Rosa, quando a voler essere tradizionalisti c’era la Sonia Braga di Aquarius o a voler essere davvero seri si poteva premiare Isabelle Huppert per i numeri che tira fuori in Elle, altro film lasciato colpevolmente a bocca asciutta.
Per fortuna almeno The Salesman, il bel thriller mascherato da cinema d’autore di Asghar Farhadi, ha avuto due riconoscimenti che raccontano bene quali siano i suoi punti forza, miglior sceneggiatura e miglior attore, Shahab Hosseini (anche se Babak Karimi è il vero mostro).

In un angolo, non premiato, dimenticato e abbandonato a se stesso, Sieranevada rimane uno dei film che più ci hanno sorpreso ed emozionato. Chissà se senza premi riuscirà ad arrivare fino in Italia…

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