Sta per uscire in sala Smetto quando voglio – Masterclass, il passo successivo nel grande piano di Groenlandia e Fandango con Rai Cinema (le case di produzione), Sydney Sibilia (regista e sceneggiatore) e 01 Distribution (distribuzione), di creare una trilogia i cui due film terminali sono girati insieme e portati in sala con una tempistica ideale per guadagnarsi il termine “saga”, cioè a poco meno di un anno di distanza l’uno dall’altro.

Al momento in cui scriviamo ancora non è stata annunciata una data di uscita per Smetto Quando Voglio – Ad Honorem, tutti gli indizi lasciano credere che sarà nell’autunno del 2017 (sarebbe molto logico), anche se esiste la possibilità di aspettare un anno esatto. Probabile che la data definitiva sarà fissata dopo i primi dati sull’incasso di questo secondo capitolo (proprio di questo, delle aspettative di incasso, abbiamo parlato con il produttore dei 3 film).

Intanto qualche mese fa, quando siamo andati in visita sul set, abbiamo discusso a lungo con chi questa serie di film l’ha ideata, scritta e non senza fatica traghettata in sala, Sydney Sibilia. Nella pausa pranzo, all’interno di un concessionario Iveco, di uno dei giorni di ripresa del grande assalto al treno (raccontato qui) che si trova nel secondo film ma che, nel piano riprese, era incastrato tra scene che sono indifferentemente nel secondo o nel terzo.

Come mai tirare dentro la polizia? Era praticamente fuori dal film originale, invece adesso ha un ruolo importante.

SS: Dipende tutto dal fatto che il secondo film non è ambientato dopo il primo ma dentro il primo. Se ti ricordi il primo finisce in carcere, con Pietro Zinni con un bambino in braccio che cerca un modo di rimanere in galera, che è un finale che non mi piaceva tanto perché mi dicevano tutti “Non c’è speranza”, che è vero ma non è quello che penso, mi è venuto così ma non avrei voluto in realtà. Quindi voglio rivederlo e dare speranza. Allora ho pensato di ambientare la storia prima che nasca quel bambino, e di farlo passando dalla parte della polizia. Le smart drugs sono in un vuoto giuridico, la polizia ha le mani legate ma possono agire tramite una banda. Praticamente diventano la Suicide Squad, criminali che fanno quel che la polizia non può fare e la loro motivazione è una fedina penale pulita.
Ma non c’è solo la polizia in più. Quando sono andato in giro con il film all’estero, tipo a Reykjavik dove ho vinto un festival e da lì ci hanno chiamato tutti i festival in giro per il mondo, ho trovato un sacco di ricercatori italiani che mi raccontavano le loro storie, così ho pensato di prendere i nuovi membri della banda tra i cervelli in fuga, come sempre con un abbinamento di competenze specifiche e fedina sporca.

Il primo film raccontava, in soldoni, la storia di un gruppo di ricercatori che non trovano lavoro con le loro competenze, si buttano su attività illegali, falliscono e cercano di limitare i danni consegnando un pericoloso criminale. Se invece ti chiedessi qual è la storia dei tre film guardati tutti insieme?

SS: È la storia della fatica di essere intelligenti. Perchè non sei gratificato, nessuno ti aiuta e finisci nei guai. Eppure sai anche fare tante cose, provi ad uscirne e se c’è da salvare il mondo lo fai. Quel che mi piaceva scrivere era la fusione, schiacciare la commedia tradizionale italiana.

Credi che una parte del successo del film sia dovuto al fatto che celebra le persone intelligenti come fossero eroi e tutti pensano di essere intelligenti?

SS: Penso che piaccia perché fa ridere, che è la componente fondamentale nonchè quella che va oltre me, ed è merito molto degli attori. Ma piace anche perché è una storia di supereroi, credo, loro sono gli X-Men archetipici, hanno il nemico dentro di sé e il nemico fuori da sé e solo insieme sono imbattibili, un principio perfetto che vale anche nella commedia italiana. E che l’intelligenza sia il migliore dei superpoteri è un messaggio sempre potente.

Mi hanno detto che tu hai tutta una tua classifica dei grandi villain del cinema italiano è vero?

SS: AHAHAHAHA sì l’ho tirata fuori quando parlavo con Luigi Lo Cascio del suo ruolo, del fatto che sarebbe stato il nostro villain, e quanto sia strano un villain in una commedia, allora ho fatto la classifica. Chi c’è in cima secondo te?

Il più grande villain del cinema italiano? Saltando quelli più tradizionali da cinema di genere anni ‘60 e ‘70, io direi Nanni Moretti in Bianca.

SS: Bravo, esatto. Quella è l’idea. Però per me è un altro, è il geometra Calboni. Perché lui è proprio la nemesi del protagonista, sta con la signorina Silvani, che è quello cui Fantozzi aspira, ha una risata cattiva, è mellifluo, lo chiama Pucettone, lo sfrutta… Forse un giorno scriverò un personaggio così bello… Anzi no, è inarrivabile.

La cosa strana è che il tuo villain, Luigi Lo Cascio, si rifà a tutta un’altra tradizione invece…

SS: Beh… L’ho pensato come l’opposto logico di Edoardo Leo, ma certo si rifà ad un cinema più tradizionale. Ho immaginato lui, Edoardo e il Murena come tre facce della stessa medaglia, tre livelli di cattiveria diversa. E poi mi piace che loro due si incontrino in cima ad un treno in corsa mentre stanno rubando delle pillole.

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Non è difficile vedere nel tuo film e in qualche altro esempio come il più clamoroso di tutti, Lo Chiamavano Jeeg Robot, qualcosa in comune, un modo di intendere il cinema diverso dal solito. Tu la vedi così?

SS: In un certo senso, la mia è la tradizione della commedia classica ma in un arco da saga americana, poi se ci viene bene lo facciamo ancora, altrimenti non lo facciamo più. Inizialmente pensavo che Smetto Quando Voglio sarebbe stato un passo molto forte, poi però ho visto Jeeg Robot e ho capito che le cose stanno cambiando, ci carichiamo a vicenda. Io non credo che siamo il nuovo cinema italiano, siamo solo il cinema italiano che si rinnova da solo. Siamo una nuova generazione per motivi anagrafici ma anche di mentalità. Non siamo più tanto giovani, ci sta gente più giovane di noi, ma a differenziarci forse è un essere sinceri con se stessi e raccontare quel che ci piace, la voglia di raccontare cose diverse. Bisogna solo vendere quanto il mio gusto sia allineato con quello del pubblico.

Proprio riguardo questo, nel secondo e terzo film hai aggiustato cose che dopo l’uscita del primo film hai capito che funzionano di più? Ad esempio Stefano Fresi ha avuto un’esplosione dopo l’uscita del film ed è stato uno di quelli che ne sono usciti meglio.

SS: No in realtà no. La banda rimane equilibrata, nessuno ha un ruolo predominante, sono tutti equilibrati, non è un film di sottostorie ma uno di banda.

In questi due film ci sono finiti anche delle scene scartate dal primo?

SS: C’è solo una scena che avevo scartato dalla seconda stesura, era una cosa con due gemelli abruzzesi di 50 anni che Pietro beccava in cella. Forse tornerà nel terzo ma non so se poi mi piace davvero, quindi forse la ritaglio di nuovo. Per il resto tutto è stato inventato dopo l’uscita del primo film ma fatto apposta per sembrare che l’avessimo pensato fin dall’inizio.
Insomma alla fine sono 3 film diversi ma il senso ce l’hai solo se li vedi tutti insieme. E il senso è “il futuro non è scritto quindi scrivetevelo voi e scrivetevelo buono”, come Ritorno al Futuro.

L’idea di questo film, l’hai detto tu, ti è venuta anni e anni fa, perché ti piacevano Breaking Bad e Big Bang Theory, invece ora?

SS: Ora mi piace I Guardiani della Galassia, gli Avengers e un po’ meno le serie devo dire, ma poi mi influenza tutto quel che vedo e leggo. Per esempio stavo giocando a GTA V ed è pieno di missioni al porto, così ho voluto metterci una cosa al porto anche nel film ed ero così esperto che quando sono andato a fare il sopralluogo sapevo tutto, chiedevo: “Ma ce l’avete il ponte gru? Mettiamo dei cecchini là e là allora!”. Poi certo tutto deve rientrare nella trama eh, però non hai idea quanto mi faccia influenzare.

Invece del cinema italiano cosa ti piace?

SS: Mi piace molto il cinema italiano, mi piace Buongiorno Papà, Noi e la Giulia, insomma i film di Edoardo, ma anche Gli Ultimi Saranno gli Ultimi, proprio un bel film, ovviamente mi piace Jeeg Robot! È stupendo, sono impazzito, ma in generale sono un fan del cinema italiano e mi dispiace solo quando è pigro e poco ambizioso perché fa male al cinema tutto. Cioè abbiamo audiovisivo ovunque, su iPad e in tv e il cinema deve essere più “esclusivo”, credo che la gente scelga il cinema per prodotti cinematografici, se puzza di altro linguaggio magari aspetta Sky anche se è un bel film. Perfetti Sconosciuti per esempio non è spettacolare ma perfettamente cinematografico, non ci si potrebbe fare una serie, è libero ed è cinema. Ma anche film complicati come The Revenant lo sono.
Gli americani rispondono a questo problema con i soldi, con film immensi tipo Iron Man, che non potresti fare con i soldi della tv, guarda Stranger Things è fico ma il mostro fa schifo! Tuttavia ci stai perché paghi solo 8€/mese.

Stefano Sollima sostiene che per avere successo all’estero la cosa più importante sia il look, la fotografia, che prima di tutto deve “sembrare” un prodotto internazionale. E poi dopo quello che bisogna porsi il problema di avere contenuti che possano essere compresi ovunque. Smetto Quando Voglio ha avuto un buon successo internazionale, pensi che il segreto sia lo stesso?

SS: In realtà per me è stato il contrario, io quando finisco di scrivere penso che lo capiamo solo in Italia e invece no. In Cina! A Shanghai! Tutte sale strapiene e tutti ridono. L’università di Milwaukee ha tagliato i fondi e allora mi hanno chiesto di andare lì a presentare il film, e io ci sono andato con il mio zainetto non sapendo che avrei fatto nel midwest che poi è bellissimo, la provincia vera, io sono di Salerno e penso di essere provinciale poi vado a Milwaukee… Ma insomma gli è piaciuto e gli faceva ridere tantissimo, anche se c’è un umorismo di situazione cui non sono troppo abituati ma gli piace anche se per loro è tipo “cinema d’essai”. Sono stato a Guadalahara in Messico, che ha dei cinema bellissimi, la città della tequila e dei mariachi dove risiedono i narcos e quindi è tutto in pace, e anche lì ridevano!

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