Come produttore Etienne Comar ha realizzato film che hanno girato il mondo come Uomini di Dio e Mon Roi, addirittura ha portato il cinema africano a Cannes con Timbuktu, e non ha disdegnato i generi più commerciali con La Cuoca del Presidente.

Ora è passato alla regia, alla tenera età di 50 anni, e il suo primo film, Django, ha aperto la Berlinale.

Nonostante il film racconti la vita di Django Reinhardt ad un certo punto l’impressione è che potrebbe essere chiunque altro, non è più su di lui ma sugli zingari perseguitati, volevi trattare due argomenti insieme?

“Il film è proprio in due parti e mi piaceva che la fuga da Parigi bilanciasse il fatto che lui è un artista cieco rispetto a ciò che accade nel mondo, questo sia per il successo e sia per come è perso nella sua musica. Lo si vede nella lunga sequenza di apertura. Ad un certo punto però gli piomba addosso la Storia e lo obbliga ad andare in Germania e cambiare idea. A questo punto arriva la seconda parte assieme alla tragedia della sua comunità. Alla fine è solo un anno e mezzo della sua vita ma un periodo cruciale.
Uno dei miei primi lavori nella produzione fu nel Van Gogh di Pialat, facevo il runner, e Pialat diceva che non bisogna occuparsi dell’uomo come icona ma appropriarsi di ciò che si trova interessante nella sua storia. E ciò che mi interessa qui è la musica che lo accieca”.

Come ti sei documentato? Non è che esista troppo materiale su Django…

“Abbiamo poco del vero Django, 350 foto e tre minuti di film, nessuna intervista nè testimonianze sue, solo di altri, nessuna biografia ufficiale e poi la sua musica. Fine. Non ci siamo preoccupati troppo di essere fedeli quindi, sapevamo di questo materiale ma è così poco che dovevamo concentrarci su questi due anni per creare il nostro Django, con rispetto ma senza copiare nulla.
Però il fatto che volesse cambiare musica, fare un brano sinfonico senza che nessuno lo sapesse è vero. Pensa che voleva anche arrangiare Manoir de mes Reve per farne un pezzo sinfonico. Per tutti questi motivi quando lo suona alla fine (e quel che sentiamo è un arrangiamento di Warren Ellis di quelle poche note trascritte che ci sono arrivate) quel questo pezzo simboleggia come l’uomo capisca una tragedia”.

Sempre riguardo la musica avete preso veri musicisti accanto al protagonista Reda Kateb giusto?

“Volevo che la parte musicale fosse realistica e che ogni volta i musicisti di supporto fossero veri. La musica che sentite è suonata dal Trio Rosenberg, i maggiori esponenti del manouche di oggi, a loro ho chiesto di risuonare quei pezzi non proprio uguali a come si facevano allora ma con un po’ di modernità, perché oggi per noi Django Reinhardt è vintage ma allora era modernissimo”

Reda Kateb ha dovuto allenarsi per simulare bene di suonare la chitarra?

“Sì, Reda ha imparato la chitarra in un anno e solo per due dita, quindi lavorando duro. Tre mesi prima di girare la sua diteggiatura non era perfetta, quindi avevo tenuto dei soldi da parte per un ritocco digitale ma poi mentre giravamo il suo livello è cresciuto moltissimo e non ce n’è stato bisogno. Solo nei primi piani delle mani è un altro a suonare, un professionista”.

L’atteggiamento nazista nei confronti del Jazz in questo film è strano, lo condannano e lo promuovono al tempo stesso. Era così?

“Il Jazz nella seconda guerra mondiale è un grande tema, Kubrick voleva un film su dr. Jazz [uno dei personaggi di questo film ndr], perché presta il fianco a grandi contraddizioni. Si tratta di musica americana, dei neri e quindi bandita ma era anche molto popolare, specie presso i ragazzi, come sarebbe stato il rock negli anni ‘60 e durante la guerra c’è bisogno di questi svaghi, specie per le truppe. Non potevano proprio proibirla ma se n’erano usciti con una serie di regole per arginarla che facciamo vedere nel film e che sono vere”.

Alla fine qual è il motivo che ti ha spinto a passare da produttore a regista?

“Non è troppo che lo volevo fare ma per me fare film è un lavoro da artigiano quindi sapere un po’ di tutto, specie la parte artistica, è sempre stata la regola. La gente ama metterti in una categoria mentre io voglio cambiare e muovermi, non so che farò dopo Django, di sicuro altri film perchè mi piace ma mi piace anche scrivere per altri registi.
Stare qui poi è un privilegio. Berlino scopre nuovi registi prendendosi anche più rischi di Cannes alle volte. Il fatto poi di stare in apertura mi fa sentire di aver portato finalmente Django in Germania da che, nel film, si vede che non ci vuole andare”.

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