Abbiamo scritto dei 5 eventi inaccettabili dell’edizione 2017 del Festival di Cannes e ora mettiamo in fila invece i momenti migliori, quelli che più rimarranno di un’edizione complessivamente abbastanza moscia.

Sono tutti momenti di vero cinema vissuto non di colore, cioè attimi in cui qualcuno ha preso una posizione, ha avuto una reazione, ha manifestato un’opinione o è accaduto qualcosa relativo ad un film. Che poi è quel che dovrebbe più uscire da un festival come Cannes, momenti in cui l’essere spettatore o appassionato raggiunge uno zenith emotivo dato dalla compresenza di altri appassionati, di chi le opere le crea e del piacere della prima visione in assoluto. Insomma il concentrato del cinema migliore nel posto in cui affluiscono le persone più interessate ad esso.

 

 

1. Le lacrime di David Lynch
Lontano dal lungometraggio da almeno 11 anni, lontano dal grande pubblico, lontano da quel che sa fare meglio, David Lynch è tornato tutto insieme con 18 ore della terza stagione di Twin Peaks.
Arrivato a Cannes, festival che l’ha sempre coccolato tantissimo, all’ovazione nei suoi confronti non ha trattenuto le lacrime di chi non era certo di essere ancora rilevante per l’arte cui ha dedicato tutta la vita.

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2. Il film n.100 di Takashi Miike
Fu la Quinzaine a volermi qui con Gozu, un film girato in video. All’epoca quelli non erano considerati film e Cannes fu il primo a dire che invece un film lo era e come!” ce l’ha raccontato quando lo abbiamo intervistato. Takashi Miike festeggia il centesimo film della sua carriera nel ruolo che ha sancito ufficialmente la sua centralità nell’industria.
Con la sua produzione pazzesca, rapida e bulimica, con i suoi tempi e la sua testa che gira sempre nel verso che decide lui e mai in quello obbligato dall’industria Miike poteva passare una carriera intera come mestierante non fosse stato per questo festival, e il suo pubblico, che l’hanno giustamente promosso al campionato che merita.

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3. L’urlo alla fine di Rodin
Film biografico sul noto scultore francese. Opera che puzza di muffa e di fiction televisiva. Conservatore e incapace di osare nulla. Rodin è stato così disprezzato da non ricevere praticamente nessuna buona critica e quasi nessun applauso. Ancora peggio, quando è finita la prima proiezione (quella per la stampa), sul nero del cartello finale e il silenzio della chiusura un urlo si è levato solingo ma che ha trovato l’approvazione della sala quasi subito: “Es un cinema viejo!”. Urlare forte e chiaro che questo è cinema vecchio e che per questo non dovrebbe stare in concorso a Cannes, una presa di posizione intellettuale comunicata con urgenza a proiezione appena finita da un corrispondente di un qualche paese di lingua iberica.
Quando ci si chiede perché sia un rischio andare in questi festival, quando si pensa a cosa significhi misurarsi con un pubblico realmente critico è a questi momenti che si fa riferimento. Insulto peggiore, a Cannes, non ci poteva essere. Ma al tempo stesso anche presa di posizione più necessaria non poteva esserci.

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4. I problemi alla proiezione di Okja
Quel che è successo alla prima proiezione di Okja poteva finire nei momenti peggiori del festival, invece è diventata un’occasione memorabile.
Come in molti cinema anche nella sala grande del festival di Cannes c’è un telone che copre lo schermo, uno che si alza automaticamente per far partire la proiezione e cala quando è finita. Per Okja non si è alzato bene, è rimasto incastrato a metà. Così la metà sotto dello schermo era scoperta e si potevano vedere le immagini, la metà superiore invece era oscurata. Dopo una decina di minuti di vive proteste del pubblico la proiezione è stata sospesa, il guasto riparato e tutto è ripartito.
In virtù delle polemiche che hanno preceduto la proiezione però in molti hanno voluto leggere nell’accaduto uno screzio tra Cannes e Netflix, anche se la cosa non avrebbe avuto alcun senso logico.
Che però in questi anni di transizione, in cui una nuova forma produttiva avanza e conquista terreno specie nel cinema più appassionante e cinefilo (Baumbach e Bong Joon Ho erano al festival ma Scorsese pure sta lavorando ad un film per Netflix), proprio nel tempio del cinema sia stata la sala a non funzionare mentre il film (o meglio il file) andava molto bene, e proprio mentre i difensori delle sale sostenevano la sua preminenza, l’impressione era che tutto avesse un che di metaforico e simbolico.

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5. L’ovazione per Salim Shaheen
Quando alla Quinzaine des Realisateurs si sono accese le luci dopo la prima proiezione di Nothingwood, documentario clamoroso su Salim Shaheen, cineasta da 110 film in carriera sgangheratissimi ma pieni di vita, anima di un sistema cinema afgano che di fatto non esiste, produttore, attore, sceneggiatore e regista di film fatti con una videocamera e una serie di amici e parenti come troupe, la sala è letteralmente esplosa.
Almeno 5-6 minuti di applausi in piedi inarrestabili per il cuore infinito di un uomo che lavora con la competenza di Lory Del Santo ma la mentalità titanica di un Abel Gance, capace di far emozionare il proprio pubblico di riferimento e da questo profondamente amato.
Si può anche morire dal ridere durante la visione di Nothingwood per le mille incredibili assurdità, ma quando i protagonisti sono saliti sul palco a proiezione finita era palpabile in quella sala di cinefili un’ammirazione sconfinata per uno scalcinato uomo di cinema vero. Duro e puro. Lì sul palco Salim e i suoi collaboratori abituali si sono messi a piangere di fronte al riconoscimento che non pensavano avrebbero mai potuto avere dalle sperdute lande deserte dell’Afghanistan.
Quando il cinema è qualcosa che prescinde dalla qualità, sa aggirare le incompetenze e balena anche nel più sguaiato e maldestro degli animi.

 

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