Il regista Michaël R. Roskam ha realizzato il secondo capitolo della sua trilogia ispirata ai crimini realmente accaduti in Belgio, progetto iniziato con Bullhead, con Le fidèle.
Il lungometraggio è una storia d’amore che segue quanto accade quando l’affascinante Gino incontra la determinata Bénédicte. La giovane è una campionessa delle gare automobilistiche e lavora anche nell’azienda di famiglia, mentre lui è un ragazzo normale e bello che nasconde un segreto che può mettere a rischio la sua vita e quella di chi lo circonda. La coppia dovrà combattere contro il destino, la ragione e le loro debolezze per salvare il loro amore.

Nella nostra intervista il filmmaker ha raccontato la genesi del lungometraggio che ha come protagonisti Adèle Exarchopoulos e Matthias Schoenaerts e propone un approccio veramente speciale all’amore e alla rappresentazione del mondo dei gangster.

42273-photocall_-_le_fid__le_-_micha__l_r-_roskam_-_ad__le_exarchopoulos_-__matthias_schoenaerts____la_biennale_di_venezia_-_foto_asac___8_È una storia d’amore molto tradizionale in un mondo in cui i rapporti umani sono gestiti con i social media o app stile Tinder. Come mai la scelta di mostrare questo amore così puro e distante dalla realtà contemporanea?

In un certo senso è un po’ una reazione proprio all’esistenza di Tinder e a questo panorama, ma in realtà nasce dalla mia idea che ci sia il desiderio di un amore assoluto e di scoprire cosa accade se si riesce a trovarlo, se si potrebbe essere pronti una volta incontrata la persona giusta.

E’ un approccio quasi più tradizionale che moderno, quindi?

Forse sì anche se potrebbe sembrare così tradizionale perché affronta dei temi classici, come ad esempio l’idea di amore e di morte, e c’è un aspetto tragico e melodrammatico. Amo però il fatto che si possa descrivere la storia come moderna e al tempo stesso tradizionale perché è qualcosa a cui aspiro.

Adele ha rivelato di aver amato in particolare il progetto perché il suo personaggio, Bibi, si sacrifica e lo trova un atteggiamento un po’ vecchio stile. Come regista hai puntato su questo elemento del sacrificio nel raccontare la sua storia?

In un certo senso sì perché, ovviamente, ho una visione dei miei film quasi come fossero un millefoglie: amo mettere tutti questi strati e ognuno fa riferimento a qualcosa di diverso, anche se niente è lì per caso. In questo progetto, inoltre, c’è stato un po’ un ribaltamento di ruoli tra uomo e donna, situazione che rende l’insieme più moderno nonostante il contesto più classico. Bibi fa gare di automobilismo, lui è un “homme fatal”, non c’è più spazio per la femme fatale!

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Hai dichiarato di aver iniziato a lavorare al film mentre stavi scrivendo la sceneggiatura del tuo precedente lungometraggio, come si è evoluta nel corso del tempo l’idea?

Lo spunto è nato creando il passato del fratello di Jacky in Bullhead, in cui il protagonista veniva definito dall’assoluta assenza di amore in ogni senso, fisicamente, emotivamente, socialmente… Il fratello rappresentava invece un amore legato alla famiglia e sono stato colpito da un’ispirazione “cosmica”, decidendo di metterla da parte, lavorarci su, concimarla in un certo senso per quattro anni e scoprire cosa sarebbe accaduto. E’ così che Le Fidele è cresciuto ed è diventato ciò che è oggi.

Che tipo di ricerche hai compiuto per scrivere la sceneggiatura?

Si ispira in parte a un gruppo di criminali degli anni ’80 che erano quasi come delle rockstar: nessuno riusciva a resistere e tutti leggevano le loro gesta, si informavano sulla loro vita. Uno dei gangster in azione a Bruxelles aveva il fascino di Gino, Patrick Haemers, c’erano donne che si innamoravano di lui mentre la sua fidanzata era un’ex prostituta ed entrambi hanno fatto parte di un piano per rapire un ex primo ministro. Erano poi fuggiti in Brasile, e sono stati poi rimpatriati, e ci sono queste immagini su YouTube di loro amanettati che rilasciano interviste con i poliziotti intorno, sembravano delle star, spiegando che attendevano di ritornare in Belgio e scoprire cosa sarebbe accaduto. Era davvero una situazione folle! E c’è poi questo gangster scoprannominato il Re della fuga che aveva invece una certa malinconia perché era cresciuto in un ambiente sbagliato e si è poi innamorato della figlia del proprietario di una società che gestiva dei taxi e lei, quando era molto giovane, pilotava dei rally. Si pensava che lei fosse coinvolta nelle sue attività criminali perché erano davvero innamorati ed era simile alla situazione di Bibi nel film. Ricordo un episodio in cui lui era di nuovo fuggito e lei continuava a dire di non essere coinvolta e stava quasi urlando dicendo “Tesoro, se ti stai nascondendo qui perché so che lo sei, i poliziotti sono qui per arrestarti e tornerai dritto in prigione!”. Sembrava quasi stesse dando un ordine a un cane ma vedevi nel suo volto che lo amava. Ho unito tutte queste cose insieme e ho creato la mia grande storia d’amore perché l’amore assoluto ha bisogno di grandi ostacoli e adoro le storie di gangster, i noir degli anni Venti…

Nel film c’è comunque spazio per il lato buono e positivo di Gino

Certo, ovviamente! E in più penso che se si vedesse camminare Gino si potrebbe pensare ‘Al diavolo la mia moralità! Mi piace questo ragazzo!’. In realtà sto scherzando! Nei miei film sono sempre alla ricerca della complessità e non cerco di ricreare un genere, anche se utilizzo degli elementi un po’ da geek e alle volte commerciali per colpire lo spettatore con delle emozioni vere. Mi piace combinare ispirazioni diverse, magari iniziare con gli aspetti più glamour e bei movimenti della telecamera per creare l’idea che la vita dei protagonisti sia come un film, ma poi scopri che non lo è quando ti addentri nella storia. In quel momento tutto inizia a cambiare: lo stile, le inquadrature, i colori… Vibra tutto sotto il peso dell’amore. Quello è, secondo me, il mio modo di fare arte: è come un’opera d’arte.

E’ una visione condivisa anche dai tuoi produttori?

Il mio produttore voleva ad esempio definire Bullethead “commercial arthouse” o qualcosa di simile. E ho pensato che sarebbe stato fantastico e in un certo senso è accaduto. In Belgio è stato un vero successo, anche on demand e in homevideo, e lo stesso è successo con The Drop – Chi è senza colpa. Probabilmente, anzi spero, che accada lo stesso con Le Fidele. Non si tratta però di vendere un prodotto, anche se forse i miei produttori non sarebbero felici di sentirmelo dire. Per me si tratta tutto delle vibrazioni che ti trasmettono il cinema e l’amore che, in questo caso, si tenevano per mano. E’ una storia che procede grazie alle emozioni, non alla trama o ai personaggi. Si tratta di un melodramma senza vergogna in cui non c’è spazio per il cinismo, quello lo tieni in tasca e lo ritiri fuori quando esci dalla sala, altrimenti non funzionerebbe.

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E’ la quarta volta che collabori con Matthias Schoenaerts, hai sempre pensato a lui per il ruolo?

Ogni volta che penso a una storia e inizio a scrivere ho in mente un personaggio, o più personaggi, e di solito si tratta di un uomo di una certa età, vicino alla mia. Ho presentato l’idea a Matthias per chiedergli la sua opinione e lui mi ha risposto: ‘L’adoro, facciamola!’. E poi ho iniziato a scrivere la sceneggiatura e ho chiesto come si immaginava Gino, ed è nata questa idea che avesse un certo fascino, fosse intelligente, un po’ oscuro, che parlasse bene. E mi ricordo di aver replicato ‘Grandioso, ma non sa scrivere bene, compie errori di ortografia’. Matthias ha quindi commentato ‘Sì, è vero, lo immagino così’. Nel film non si vede ma per me era importante che Gino se avesse dovuto scrivere qualcosa avrebbe compiuto degli errori perché non era mai andato a scuola.

Il Belgio è una nazione molto piccola ma nel mondo del cinema ci sono tantissimi talenti, come ad esempio i fratelli Dardenne, oltre ad attori e produttori. Secondo te da dove nasce questo grande successo nel cinema?

Sono nella stessa frase con i Dardenne! E’ un enorme complimento. Se mi fosse stato detto cinque anni fa che qualcuno mi avrebbe citato nella stessa frase con loro avrei reagito cantando e ballando! In realtà non so spiegarmelo: forse c’è un’emancipazione nel settore del cinema a livello economico e questo credo abbia aiutato. Realizzare film è costoso e in una nazione così piccola in cui si cerca di non spendere molto si tende a non avere dei lungometraggi di alto profilo, è molto complicato girare. Alle volte si realizzano ma non sono adatti al pubblico internazionale. O ci sono progetti con star locali che in realtà sono versioni girate in Belgio di progetti già fatti all’estero. A un certo punto, quando grazie alla tecnologia è stato più semplice girare dei film, si è iniziato a lavorare di più, a rendere più vivo il settore, coinvolgendo sempre più persone. Quando ero giovane non avrei mai pensato che sarei potuto diventare un regista, credevo che avrei lavorato nel mondo dei fumetti e avrei creato graphic novel perché quello era il mio sogno. Credevo che il cinema fosse fantastico e magico, ma non osavo pensare di farne parte.

Ti interesserebbe quindi girare un film animato?

Certo, mi piacerebbe tantissimo! E’ molto costoso ma mi piacrebbe tantissimo realizzarlo.

E di che genere?

Non legato al crimine. Ho già in mente il progetto e non posso dire nulla. Non si tratterà del mio prossimo film, ma spero di girarlo entro un decennio. Quando i miei lungometraggi incasseranno abbastanza soldi mi metterò al lavoro seriamente. Attualmente sto iniziando a delineare il terzo capitolo della mia trilogia dedicata al crimine in Belgio e sto inoltre lavorando a un progetto americano ed europeo, uscendo dai confini della mia nazione.

 

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