I trenta di minuti di Coco, il nuovo film Pixar in uscita il 28 Dicembre in Italia, visti a Lucca Comics & Games sono sufficienti a confermare quello che il trailer sembrava suggerire: se è evidente che l’ingresso della Pixar “dentro la Disney” nel 2006 in meno di 10 anni ha radicalmente trasformato i film dei Disney Studios, riportandoli su standard di cinema di serie A, è anche vero il contrario, cioè che la testa Disney si sta inserendo nei film Pixar.
Quello che per cui non bastano invece è scoprire dove si è nascosto lo spirito Pixar, quel sorprendente modo di ribaltare le storie, stupire lo spettatore e tenersi sempre un asso nella manica.

Coco infatti si presenta come una storia disneiana della rinascita, ovvero quegli archi narrativi che, a partire dal secondo periodo d’oro (gli anni ‘90) hanno contrassegnato i film dello studio. Se infatti prima le storie Disney significavano restaurazione e mantenimento degli equilibri (con pochissime eccezioni come ad esempio Dumbo, che racconta di come non dare mai retta a nessuno, o La Spada Nella Roccia, uno dei più grandi elogi di sempre del barare), dagli anni ‘90 in poi sono quasi sempre state storie di ribellione all’autorità e alla famiglia.

Si ribella Belle, si ribella Mulan, si ribella Ariel ma anche Jasmine di Aladdin e in tempi più recenti Rapunzel, Zootropolis e Oceania hanno raccontato protagoniste che rifiutano i dettami della famiglia, del proprio popolo o delle istituzioni sociali per seguire affermare se stesse o proprio cambiare il mondo che conoscono. Non è stata questa fino ad oggi la mentalità Pixar, i loro personaggi mirano più semplicemente ad un’esistenza tranquilla a dispetto di quello che le storie hanno in serbo per loro, giusto il topo di Ratatouille la pensava diversamente.
Invece Coco ci mostra subito il contrasto al centro di tutto: Miguel vuole suonare, vuole essere un musicista ma la sua famiglia, segnata generazioni prima dall’abbandono di un padre che è andato a suonare lontano da tutti, ha bandito la musica dalla propria vita per abbracciare l’arte del fare scarpe. Dunque Miguel non può nemmeno nominare la musica, anzi deve lavorare nella bottega da ciabattino della sua famiglia, eppure è determinato a suonare davanti a tutti.

L’intreccio che lo tiene bloccato nel regno dei morti proprio il giorno dei morti (l’equivalente di Ognissanti da noi) è in questo senso perfetto: ha bisogno dell’approvazione dei suoi parenti (defunti) per tornare nel mondo dei vivi, ma i suoi parenti per l’appunto non possono che non approvare la scelta. L’obiettivo quindi è trovare, proprio nel regno dei morti, l’unico che glielo darà: il suo trisavolo musicista quello che tradì tutti.

Il punto di forza chiaramente qui è ciò che abbiamo visto nei trailer, cioè un impianto visivo e cromatico potentissimo, fatto di contrasti con il nero della notte, il bianco delle ossa dei morti e i tantissimi colori molto saturi delle luci e dei festoni del giorno dei morti. Ogni magia, ogni suggestione e ogni memoria viene resa a partire da un gioco di luce o colori, e non di movimento come spesso capita. Ma anche qui si tratta di un’arte più tipica della Disney (la casa dei grandi disegnatori) che della Pixar (la casa dei grandi narratori).

Sarà interessante vedere dove va a parare il film, anche perché c’è un dettaglio che promette di riportare l’etica e la testa dei migliori film Pixar anche in questa storia: il titolo.
Coco non è il protagonista, non è il suo aiutante, non è il nome del grande trisavolo musicista né quello di un cattivo, non è un luogo, non è un obiettivo da conquistare. Coco è la bisnonna quasi inferma che non ricorda più nessuno e se ne sta da una parte. Personaggio marginalissimo e trascurabile, almeno nei primi 30 minuti (e nel trailer la si vede per un secondo), a giudicare dal risalto che il titolo le dà deve invece essere determinante e conoscendo la Pixar lo deve essere sentimentalmente.

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