Dopo essersi fatto notare nel 2010 con il tesissimo documentario di guerra Armadillo, attraverso cui passò sei mesi al fianco di un contingente di soldati danesi impegnati in Afghanistan, Janus Metz ha diretto un episodio della seconda stagione di True Detective e poi, sorprendendo tutti, il film sportivo dedicato alla finale di Wimbledon del 1980 in cui un ventiquattrenne Bjorn Borg incontrò da numero uno del mondo il ventunenne John McEnroe per quella che è considerata una delle partite più epiche della storia del tennis. Abbiamo incontrato Metz alla dodicesima edizione della Festa Del Cinema di Roma dove Borg McEnroe è stato presentato nella selezione ufficiale dopo essere stato visto in anteprima mondiale al Festival di Toronto.

Attualmente il film si trova nelle nostre sale dopo aver vinto il Premio del Pubblico Bnl alla da poco conclusasi Festa del Cinema di Roma.

Come definiresti il tuo film? Un film sportivo?
No. Lo definirei un film sul tennis, sulle nostre famiglie e la nostra identità.

Due uomini diversi ma praticamente in simbiosi come se il calmo Borg avesse capito quanto il giovane McEnroe avesse bisogno del suo accompagnamento perché anche Borg aveva vissuto il disagio di essere stato da giovane un ribelle in preda alla rabbia. Cosa ne pensi del fatto che tutto il film ci porta a vederli come lo stesso uomo ma in fasi della vita diverse?
Era precisamente il mio obiettivo. Nonostante ci siamo concentrati più su Borg, l’intenzione era anche realizzare un film sul processo di creazione della nostra identità. Quella di Borg si forma attraverso dei flashback in cui abbiamo visto quanto e come avesse lavorato con l’allenatore per placare la bufera interiore. Quella di McEnroe si forma definitivamente proprio attraverso quella finale di Wimbledon in cui riesce a controllarsi maggiormente in campo proprio perché dall’altra parte della rete c’era Borg per cui McEnroe aveva una vera e propria ossessione.

La scena in cui McEnroe si specchia davanti a delle foto di Borg cercando di assumerne l’aspetto fisico scimmiottandolo leggermente, mi ha ricordato quella scena di Control di Anton Corbijn in cui un giovane Ian Curtis si trucca davanti allo specchio prendendo come riferimento una foto di David Bowie nel periodo Ziggy Stardust. Sono due scene praticamente identiche perché anche Ian Curtis in quel momento sta cercando di capire quale sia la sua reale identità prima di diventare famoso come frontman dei Joy Division…
È buffo che tu mi ci faccia pensare perché io adoro letteralmente Control di Anton Corbijn ed evidentemente quello deve essere stato un mio omaggio inconscio a quel bellissimo film visto che fino a questo momento non ci avevo ancora pensato. Ricordo la scena di Control benissimo ed effettivamente sono due momenti molto simili. Abbiamo passato tutti questa fase nella vita in cui avevamo dei modelli precisi che ci servivano per cominciare a plasmare la nostra reale personalità.

Perché hai voluto dare un forte significato legato al suicidio quando Borg fa flessioni sul balcone della sua casa di Monaco?
Perché noi scandinavi siamo fatti così. Il suicidio è sempre presente per noi. Mi piace che si colga quel sapore in quel momento perché quando ho letto la sceneggiatura di Ronnie Sandahl… è stata quella scena a convincermi a candidarmi con forza per la regia del film. In quell’esercizio fisico davanti a un abisso pronto ad inghiottirti c’è tutta la tragedia di un uomo come Borg: iper controllato al punto da fare flessioni rischiando di cadere giù e così tormentato da accarezzare l’idea del suicidio. Volevo che quell’idea arrivasse allo spettatore.

Come hai scelto i due protagonisti del film Sverrir Gudnason e Shia LaBeouf?

È stato un processo interessante. Sverrir è un nome molto grosso in Svezia e nonostante lo conoscessi, non sapevo che fosse così quotato in patria. Fin dal primo provino mi ha fortemente impressionato perché lui è uno di quegli attori che sa recitare dentro sé stesso facendo percepire allo spettatore il potente travaglio interiore del personaggio. Sverrir si è sottoposto a un regime atletico folle per permettere al suo corpo e alla sua mente di entrare entrambi in connessione con fisico e testa di Bjorn Borg.

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E LaBeouf?
Quando gli è arrivata la voce che stessimo cercando un John McEnroe e poi ha ufficialmente ricevuto la sceneggiatura, mi ha immediatamente chiamato per dirmi che aveva visto Armadillo durante la preparazione per Fury di David Ayer e che lo aveva trovato uno strumento fantastico per potersi immergere dentro la vita di un soldato. Devo dire che sono rimasto colpito dal fatto che avesse visto il mio film e che lo avesse amato così tanto. Quello è stato un buon modo per iniziare a conoscersi.

E sul set come è andata con due attori apparentemente così diversi?
Sverrir è molto disciplinato e devo dire che con lui non c’è stato mai alcun problema.

Con LaBeouf… sì?
È un diverso approccio alla recitazione. Shia deve sentirsi molto dentro un progetto, ci deve credere. A volte sul set non c’era la giusta tensione per lui e io lo vedevo che recitava senza un orientamento preciso. Diciamo che con Shia sono dovuto stare più presente e dentro il suo lavoro come se dovessi essere un regista più invadente. Ogni attore ha un modo di essere e lavorare diverso dall’altro. Questi due interpreti vengono da scuole e formazioni quasi opposte. Shia è figlio dell’improvvisazione teatrale mentre Sverrir è molto meticoloso nella preparazione.

Con LaBeouf sei dovuto essere più paterno?
Quando abbiamo presentato il film a Toronto e ci siamo trovati sul palco insieme mi è venuto di dichiarare a tutte quelle persone che Shia durante la lavorazione del film era diventato: “il mio fratello più piccolo, il mio amante e il mio migliore amico”. Si è creata tra noi una relazione molto particolare e tutto questo è nato da quel suo entusiasmo iniziale per Armadillo e dalla sua voglia di affrontare il film con la voglia di farlo al meglio, mettendo tutto sé stesso nel processo.

È importante che appaia così più piccolo di Borg per tutto il film? Nella scena finale sembra uno scolaretto in vacanza premio con il suo zaino…

Sì, è importante. Abbiamo spinto molto in quella direzione con il costumista e il truccatore. Volevamo che Shia sembrasse uno studente punk e Borg un maestro saggio.

Un maestro che si rende conto di una cosa interessante: McEnroe usa il fatto di andare in escandescenza durante le partite per controllare il suo gioco e innervosire gli avversari. Tutti pensano che sia un incosciente autolesionista perché in balia del suo cattivo umore. Nessuno lo capisce tranne Borg, il quale decodifica nelle intemperanze di quel giocatore più giovane di lui una precisa strategia che in un certo senso pare invidiargli. C’è questo elemento nel film attraverso quel commento che Borg fa guardando McEnroe alla tv in cui è l’unico che pare di capire la strategia dell’americano?
Volevo che trasparissero due cose da quel momento che citi: 1) empatia oserei dire professionale. C’è un professionista che vede un altro professionista al lavoro spiegando a chi gli sta vicino qualcosa che solo lui può aver capito perché fa lo stesso mestiere. 2) invidia. È come se quel Borg che noi mostriamo come costantemente al lavoro negli anni della sua formazione tennistica con l’allenatore Lennart Bergelin nel sedare il tumulto interiore e nel reprimere quella rabbia in corpo che aveva anche più di John McEnroe… provasse in quel momento della sana invidia per un avversario tennistico che invece manipolava quella rabbia, non si faceva possedere da essa come Borg in passato e in realtà la usava per distrarre l’avversario e mettere pressione ai giudici di linea e di sedia.

Come ti sei regolato da regista sul filmare il tennis?
Due semplici punti di vista registici: 1) l’interiorità del gioco e quindi dei primissimi piani in cui non si vede nemmeno il pubblico con lo spettatore incollato alla faccia dei protagonisti 2) un punto di vista più oggettivo e alto sul campo che non fosse identico alle inquadrature tv cui siamo abituati ma che rendesse espliciti alcuni scambi della partita. È chiaro che Sverrir e Shia sono stati molto bravi a vedere e rivedere la partita per cercare di rendere quei pochi punti che abbiamo deciso di mostrare al pubblico nella loro interezza, come dire, plausibili dentro le regole del film sportivo.

Uscendo dal film, come ti poni nei confronti del lavorare in un contesto produttivo americano? Hollywood ti cerca?
Hollywood mi cerca e lo fa con una certa costanza nel tempo. Io sono drammaticamente indeciso nel senso che provenendo dal documentario ed essendo danese, ho una certa difficoltà ad avere a che fare con Hollywood con naturalezza. Non conosco l’ambiente e ho bisogno di tempo per adeguarmi al loro modo di essere. Ciò che però devi capire è la possibilità oggi per un regista europeo di interessare alcune creatività hollywoodiane come un tempo non sarebbe mai potuto accadere. È molto più facile oggi per un regista danese riuscire a lavorare con Shia LaBeouf dentro una coproduzione della Danimarca, Finlandia e Svezia come il nostro Borg McEnroe. Questa capacità attrattiva del cinema europeo può anche permetterci di non essere costretti ad inseguire noi il sogno hollywoodiano ma di avere Hollywood che vuole venire a lavorare con noi in Europa.

Ti piacerebbe tornare a lavorare con LaBeouf?
Assolutamente sì. Penso che tra noi sia nato un rapporto speciale e nonostante non possa scendere nei dettagli posso dirti che Shia sta per affrontare un progetto gigantesco che cambierà per sempre la sua carriera riportandolo secondo me a dei livelli altissimi. Ma non posso dirti di che progetto si tratti. Me ne ha parlato al telefono qualche giorno fa ed era eccitatissimo.

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