Nonostante una potenziale offerta di acquisto superiore ai 500 milioni di dollari [avanzata da una cordata di investitori guidata da Maria Contreras-Sweet], la Weinstein Company potrebbe oggi vedere nell’ipotesi della bancarotta un’opzione più plausibile che in passato.

A spalancare le porte della bancarotta potrebbe essere, tra non molto, il Procuratore Generale dello Stato di New York, Eric Schneiderman: qualora la Weinstein entrasse in bancarotta, sarebbe gestita con delle enormi influenze dall’esterno volte a smantellarne gli asset sulla base degli interessi dei suoi creditori [i quali, a questo punto, sono sostanzialmente interessati a limitare le perdite generate da un’azienda insolvente].

La compagnia, com’è noto, non sta solo valutando l’opzione della ricerca di nuovi capitali da fondi di private equity, ma sta anche accarezzando l’idea di una vendita secca dei propri asset e della propria libreria di quasi 300 film. Tuttavia, allo stato attuale delle cose, un lusso che non si può più permettere è la perdita di tempo prezioso. La Weinstein, com’è noto, è stata abbandonata dalla quasi totalità dei propri partner commerciali. Dopo lo scandalo che ha travolto Harvey Weinstein e dopo le accuse alla stessa compagnia di avere taciuto e – in parte insabbiato – gli abusi dell’ex produttore, attorno all’azienda si è letteralmente creata “terra bruciata”.

Se in passato il board della Weinstein ha scartato l’ipotesi della bancarotta è stato anche per evitare un’indagine dall’esterno – condotta dalle autorità giudiziarie – sulla condotta della compagnia [indagine che passa anche per un’analisi delle sue comunicazioni interne]. Tuttavia tale indagine, come specificato proprio dal Procuratore Generale, avverrà comunque a prescindere dall’apertura o meno del “Capitolo 11” (la sezione del diritto statunitense dedicata alle procedure fallimentari). A questo punto si aprono potenzialmente nuovi scenari. Addirittura, una vendita degli asset a seguito dell’apertura delle procedure fallimentari potrebbe anche essere un’opzione più lucrativa per dirigenti come Bob Weinstein (fratello di Harvey) e David Glasser.

In caso di cessione della compagnia a un gruppo di investitori privati [senza, dunque, l’apertura delle procedure fallimentari] è proprio il Procuratore Generale dello Stato di New York a insistere che i vertici aziendali non ricevano alcuna remunerazione, e che ogni potenziale emolumento destinato ai dirigenti sia invece accantonato e destinato alla costituzione di un fondo di risarcimento per le vittime di Harvey Weinstein.

Se invece la compagnia fosse, di fatto, smembrata dall’esterno per soddisfare i creditori, a partire da coloro che vantano un diritto di prelazione [diritto cioè a soddisfarsi “per primi” sugli asset della compagnia, lasciando in sostanza sempre più “a mani vuote” gli ultimi della lista] e per tenere conto degli stakeholder [ovvero di coloro che hanno interessi di varia natura nella compagnia, anche senza esserne necessariamente azionisti o proprietari di quote] dirigenti come [Bob] Weinstein e Glasser potrebbero anche andare incontro a una sorte finanziariamente più conveniente rispetto a quella segnata dai veti del Procuratore di New York. Oltre a esserne dirigenti, anche Weinstein e Glasser, chiaramente, hanno interessi nella compagnia: la tutela di tali interessi rientrerebbe comunque nelle clausole “di ferro” del diritto fallimentare.

A oggi, non rimane che attendere ulteriori sviluppi.

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Fonte: Hollywood Reporter

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