Avevamo capito che non ci sarebbe stato Netflix e quindi i suoi film americani importanti, ma la sorpresa è che a Cannes quest’anno non c’è proprio Hollywood.
Il direttore del festival Thierry Fremaux lo ha spiegato affermando che spesso il festival è stato criticato perché ad essere invitati sono sempre gli stessi nomi (che è vero) e dunque hanno preferito aprirsi al nuovo. La risposta è pretestuosissima, poiché il nuovo è anche hollywoodiano, e perché sappiamo tutti che il festival ha bisogno, tantissimo, di star, visto quanto ha bisogno di copertura (tantissimo). Sembra difficile che non abbiano “voluto” film di grandissimi autori o grandissime star e si può dire con un buon margine di certezza che questa “scelta” non dispiacerà ad altri direttori di grandi festival europei.

Di certo c’era poco tra cui pescare, i film di alto profilo pronti per Maggio non sono propriamente molti, ma lo stesso questa notizia avrà un impatto potente sull’affluenza al festival che invece si è riempito di Medio e Estremo Oriente. Nomi anche qui impeccabili, Lee Chang Dong, Zhang Yimou, Wang Bing, Jia Zhang Ke, Jafar Panahi, davvero il meglio del meglio, ma con un richiamo decisamente minore anche considerando solo i loro stessi paesi di provenienza!

È insomma un festival di Cannes con un fuori concorso molto povero e in cui quasi metà del concorso è costituito da film diretti da persone di colore, con un buona presenza femminile e con davvero poche sorprese. Dal lato del politicamente corretto e dei grandi cambiamenti in corso nel mondo del cinema si sono messi al riparo e magari, sarà davvero un’edizione con film fantastici. Di certo avrà meno richiamo.
Ad alzare tutte le medie sarà la presenza di Solo, lo spin off di Guerre Stellari (“il terzo film dell’universo Guerre Stellari ad essere presentato a Cannes” ha detto Fremaux) ma già si sapeva. Come già si sapeva di Javier Bardem e Penelope Cruz in Everybody Knows il nuovo film di Asghar Farhadi che aprirà.

Nonostante qualcosa tra oggi e l’inizio del festival ancora sarà annunciato, quello che genera aspettativa a questo punto (oltre alle consuete scoperte impreviste che, fuor di retorica, sono sempre la parte migliore) è il film su Papa Francesco di Wim Wenders, la presenza di David Robert Mitchell (autore di It Follows) in concorso, al pari di Serebrennikov (autore russo fortissimo ancora mai stato in competizione) e i suddetti asiatici a cui si aggiunge l’ospite fisso Hirokazu Kore-eda e la new entry Asako I & II di Ryusuke Hamaguchi, cineasta giapponese molto poco noto. Sono anni che il Giappone non sforna autori nuovi e stimolanti, la presenza di questo film nel concorso fa ben sperare.

Chiude il cerchio delle aspettative, e non certo con euforia, BlacKkKlasman Spike Lee con Adam Driver. Spike Lee negli ultimi anni non ha propriamente dato il meglio con il suo cinema “libero” e “da festival”.

Fermo restando che manca ancora la parte più stimolante del festival, ovvero la Quinzaine des Realisateurs, che annuncia la sua line up tra qualche giorno, è evidente che a guadagnare da questa selezione molto sottotono sono gli italiani. Non solo perché ne avremo due in concorso (Lazzaro Felice di Alice Rohrwacher e Dogman di Matteo Garrone) ma perché in un’annata molto dedicata alle donne, in cui addirittura anche una cineasta non propriamente devastante come Nadine Labaki è in concorso, con una presidente di giuria donna (Cate Blanchett) ci sono buoni margini per ottimi risultati.
A corredo, Valeria Golino torna in Un Certain Regard con Euphoria dopo il buon successo che aveva riscosso sempre in quella sezione con il suo primo film, Miele.

Certo a guardare i “non selezionati” (per varie ragioni) è evidente che fanno molta più impressione dei selezionati: Mike Leigh, il Suspiria di Guadagnino (ancora lo stanno montando), Loro di Paolo Sorrentino (ma chissà forse rientra dalla finestra visto che Fremaux a domanda ha risposto: “Ancora stiamo cercando di capire come proiettarlo”), Olivier Assayas, Mia Hansen-Love, Laszlo Nemes (autore di un grande exploit qualche anno fa con il bellissimo Il Figlio di Saul), il primo film americano di Jacques Audiard, il vincitore di Palma D’Oro Nuri Bilge Ceylan, il Maradona di Asif Kapadia e il nuovo film di Lars Von Trier con Matt Dillon.

In particolare Von Trier fu “bannato” da Cannes anni fa, etichettato come “persona non grata” per una battuta che ironizzava sul nazismo (battuta molto scema ma innocente, immediatamente fraintesa come un seria apologia di nazismo, da cui l’ostracizzazione). Quindi nonostante fosse naturale pensare di non trovare il suo nuovo film lo stesso, a domanda diretta, Fremaux ha risposto che tra un paio di giorni sapremo se ci sarà o no (significa che con buona probabilità ci sarà, magari film di chiusura, una sorta di purgatorio).

Non solo, sembra anche che non avremo quel contorno sfizioso di titoli che non sono propriamente film ma lo stesso piacciono a chi guarda i film. L’anno scorso c’erano state due serie, Top of The Lake e Twin Peaks, più un progetto in realtà virtuale di Iñarritu, quest’anno, l’ha specificato Fremaux, non ci sarà nulla di tutto ciò e per una motivazione che suona molto come pensata a posteriori: erano concessioni speciali per il 70esimo anno che quindi non si ripeteranno. In realtà è evidente, almeno per le serie, che il bando di Netflix pretende coerenza (nemmeno le serie vanno al cinema) e che la nascita di un festival apposito per le serie proprio lì a Cannes (chiamato Cannes Series e finito ieri) fa sì che il festival di cinema non possa fargli concorrenza.

Infine quella che doveva essere una nota di colore è diventato il dato più rivelatore di tutta la conferenza stampa: la storia dei selfie banditi dal tappeto rosso.
Questa dovrebbe essere archiviata per la scemenza che è, cioè è scemo affermare un “diritto al selfie” ed è scemo che il festival faccia la “guerra ai selfie”. Ma ancora più paradossali appaiono le motivazioni e le modalità di questa guerra che sono state spiegate in conferenza. Sia Pierre Lescure (presidente del festival) che Thierry Fremaux (direttore del festival) hanno spiegato a turni prima che i selfie sul tappeto rosso bene o male non li fanno le delegazioni ma gli invitati, cioè che non sono le persone di cinema che vivono la sacralità del momento a creare gli intoppi e le lungaggini o quella dinamica che i due tanto odiano, ma “quelli che prendono un invito dal comune o dagli sponsor, vestendosi come mai hanno fatto in vita loro”.

Sostanzialmente hanno dato la colpa ad una categoria dei loro spettatori ed invitati, dipingendola come un corpo estraneo e burino. Sia chiaro che questa cosa è vera, chiunque sia stato al festival e abbia visto la fila di persone che entrano alle premiere ha la stessa identica impressione, ovvero che l’80% degli aventi un invito non siano propriamente appassionati di cinema ma più presenzialisti, persone del mondo dello spettacolo come anche no, interessate a farsi fotografare e fare l’esperienza del red carpet. Ma un conto è fare una valutazione individuale e un conto è che il festival ufficialmente dia loro la colpa, in un modo così generico, facendo di tutta l’erba un fascio e descrivendoli in quel modo con quella boria aristocratica!

Peggio ancora è andata quando hanno spiegato come riusciranno a far rispettare il bando: “Spiegheremo e diremo più volte a tutti di non farlo. Lo diremo al banco accrediti quando ritirano il badge e lo diremo poi anche sul tappeto rosso. Se qualcuno se li farà comunque sarà accompagnato in hotel o per strada”. Di fatto istituiscono una sorta di polizia dei selfie (in realtà saranno gli stessi steward che controllano gli accrediti e aprono le file a farlo) con punizioni a gradi diversi a seconda dello status sociale (chi sta in un grande albergo e chi invece viene mollato in strada), creando di nuovo una guerra.

Una simile prospettiva fa bene coppia con la decisione di non avere film di Netflix in concorso.

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