Dal 2014 Pablo Escobar ha iniziato a colonizzare tv e cinema. Era dal 2007 in realtà che progetti sul cartello di Medellin erano in cantiere (il più famoso, Killing Pablo di Joe Carnahan, è stato bloccato dal fallimento del produttore), ma da quando la coproduzione franco-ispanico-anglo-panamense Paradise Lost ha rilanciato la mitologia del più grande trafficante di sempre, subito è arrivata la serie tv Narcos a raccontare tutta la grande parabola nel dettaglio e poi un altro film spagnolo, Escobar – Il Fascino Del Male (in uscita in Italia questa settimana), a focalizzarsi sul rapporto con la giornalista televisiva che è stata sua amante. A questo andrebbe aggiunta anche la comparsata che Pablo fa in Barry Seal, ma essendo un ruolo minore non sarà considerato, perché di fatto non c’è una reale caratterizzazione del personaggio.

I tre principali Pablo Escobar sono infatti tre versioni differenti della persona, tre personaggi che prendono pieghe diverse perché interpretati da attori diversi in produzioni differenti.
Ad ogni modo nessuno che abbia interpretato Pablo Escobar, nella frenesia che si è creata attorno a questa figura negli ultimi anni, è colombiano: Javier Bardem è spagnolo, Benicio Del Toro è messicano e Wagner Moura è brasiliano. Un dettaglio che indica bene quanta poca volontà ci sia di andare davvero vicini al vero trafficante e quanto le tre produzioni lo abbiano usato per fare altro.

Benicio Del Toro ha rappresentato il mito. Javier Bardem ha mostrato più che altro se stesso in una versione molto convenzionalmente cinematografica. Wagner Moura ha cercato invece di essere il più moderno possibile nel creare un Pablo Escobar concreto. I tre hanno risposto sia alle proprie personalità sia al tipo di film o serie in cui erano coinvolti.

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Paradise Lost non ha come protagonista Escobar, ma un surfista che si innamora di una donna in Colombia e che solo troppo tardi scoprirà essere la nipote del potente trafficante. In quel film Escobar è una figura distante per la quale è perfetto un volto molto più noto e potente di tutti gli altri attori coinvolti nel film, l’unica star, Del Toro. Escobar compare poco e quando compare è terribile, non parla quasi mai e guarda tutti in uno stato semicatatonico e spaventoso, con gli occhi a mezz’asta tipici di Benicio Del Toro.

Non sapremo molto di cosa Escobar pensasse alla fine di Paradise Lost ma avremo una chiara percezione (più chiara che in ogni altra interpretazione) di come fosse temuto, come fosse guardato e della statura del personaggio se guardato a partire dalla vita in Colombia.
Benicio Del Toro di fatto non crea una persona ma dà forma ad un mito, alla percezione che gli altri avevano di lui, è qualcosa di molto complicato, cerca di sottrarre ogni umanità al suo Escobar per diventare come un’immagine aerografata, come una statua o qualsiasi rappresentazione che celebri, che magnifichi e che sia funzionale più alla venerazione che alla concreta rappresentazione. Solitamente quest’effetto si ottiene facendo in modo che chi è attorno al personaggio lo guardi ammirato, qui bastano l’immobilismo e le pose di Benicio Del Toro.

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Al contrario Narcos, fintanto che Escobar era in vita, ne ha raccontato nella maniera più concreta la scalata al potere. Wagner Moura è Escobar sia quando è un piccolo trafficante sia quando è un magnate come non ne esistevano al mondo e non lo interpreta diversamente. Il paradosso qui è che Pablo Escobar è sempre lo stesso, non cambia, né si monta la testa, è terribile ovviamente ma con un tono quasi familiare. Senza particolari esplosioni d’ira o espressioni fulminanti, il suo è l’Escobar più probabile, credibile e al tempo stesso moderno.

Le serie tv contemporanee ci hanno abituato a creare figure confidenziali e a ripudiare la prospettiva titanica del cinema. In uno schermo domestico invece che su quello immenso della sala ogni personaggio sembra pensato per essere guardato alla medesima altezza. La regina di The Crown è incredibilmente normale (anche solo rispetto a quella di The Queen, scritta dal medesimo sceneggiatore, Peter Morgan) e così questo Pablo è totalmente comprensibile. Come se un’interpretazione moderna non avesse bisogno di romanzare ma potesse limitarsi ad essere e a cercare prima di tutto la naturalezza.

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Infine Javier Bardem ha fatto il lavoro più classico che si possa immaginare. Molto truccato, pieno di protesi che lo rendono quasi un maiale gigante, ha interpretato Escobar a partire da un fisico da escluso. In Il Fascino Del Male la sua amante Virginia Vallejo ha il medesimo spazio del personaggio che dà il titolo al film, e la storia che li unisce è quella della scalata al potere politico. Escobar qui è un escluso, una persona che voleva essere accettato e che nessuno ha voluto accettare perché povero e brutto. È ovviamente un po’ una forzatura, ma il taglio del personaggio è quello. Bardem sceglie una specie di punto di vista da Actor’s Studio e più che Pablo Escobar interpreta la sofferenza di Pablo Escobar.

In ogni momento Pablo sembra brutto, respingente e un po’ infame nella corporatura, nel volto e nei capelli. È uno sfigato violentissimo. Non ha gli occhi furbi o il sorriso malandrino delle vere foto, le occhiaie sexy di Del Toro o lo sguardo sicuro di sé di Wagner Moura ma pare un gangster anni ‘20 dalla faccia assurda. Sembra quasi una vittima della società che risponde alla violenza subita con il crimine e altra violenza. Bardem fa lo schivo, si piega spesso e non dà quasi mai al personaggio il beneficio del petto in fuori fiero.
È un modo di interpretare molto classico (e tra i tre il più demodè, sebbene il più intenso) proprio per la maniera in cui sembra mettere l’attore, il mestiere, la sua capacità di trasformarsi ed essere magnetico, prima del personaggio. In altre parole questo Pablo non vuole essere reale mai, vuole usare la figura di Escobar per creare un altro personaggio che sfrutti la sua parabola per parlare di altro, di esclusione, marginalizzazione e di uno spirito indomabile che reagisce a tutto ciò.

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