Non c’è in Italia un cineasta come Bernardo Bertolucci.

Uno che sia beniamino di qualsiasi festival, autore tra i più intellettuali che abbiamo mai avuto, che abbia lavorato praticamente sempre a livello internazionale, che abbia vinto 9 Oscar con un solo film (L’Ultimo Imperatore), abbia realizzato il film italiano (senza considerare le co-produzioni) più visto di sempre in sala, cioè Ultimo Tango a Parigi, che abbia portato in Europa le maggiori star hollywoodiane da Marlon Brando a Robert De Niro per fare film europei. Uno, infine, che da presidente di giuria si è permesso un gesto senza precedenti come premiare con il Leone d’Oro un documentario, Sacro Gra di Gianfranco Rosi.

Qualsiasi cosa faccia Bertolucci non somiglia a nessun altro. Qualsiasi cosa faccia la fa come un autore, cioè con una sua personalità molto ben distinguibile e che emerge con commovente unicità nel documentario che gli hanno dedicato Luca Guadagnino e Walter Fasano, Bertolucci On Bertolucci (ancora inedito), fatto solo di sue interviste dalla giovane età fino alla promozione di Io e Te, raccolte per temi.

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Il restauro in digitale 4K di Ultimo Tango a Parigi, che torna in sala il 21, 22 e 23 Maggio, non l’ha seguito personalmente come ha fatto Vittorio Storaro, ma ha visionato la copia restaurata dando qualche indicazione ed ha accettato di discuterne con 4 testate di cinema online.
La conversazione si è svolta nella sua casa di Roma nel cui salotto ci sono sia diversi cofanetti di serie tv che una parete su cui è dipinto un grande schermo bianco mentre sul muro opposto c’è un buco per il proiettore dall’altra parte della parete. Bernardo Bertolucci continua ad essere curiosissimo, a vedere moltissimo di cinema e di serie tv.

Che ne dice del restauro?

“È incredibile ed emozionante notare quanto il film tenga. Mi pare abbia ancora del potenziale. Con il tempo ha anche guadagnato una patina vintage”

Beh tutta la parte di Jean-Pierre Leaud suona molto d’epoca, sembra il primo atto di storicizzazione della Nouvelle Vague, un cineasta che l’ha amata e inizia a riproporne i tic più tipici…

“Lì facevo proprio dell’ironia sulla Nouvelle Vague e sui cinephile, quindi anche su di me”.

Il progetto di Ultimo Tango a Parigi seguì una linea unica dall’idea all’arrivo in sala del film?

“Non c’è mai una linea unica nella lavorazione di un film, è solo una fantasia. Questo film nasce dal suo titolo e da una fantasia erotica, incontrare una donna mai vista prima in un appartamento deserto a Parigi e iniziare un rapporto che si ripeterà sempre identico a se stesso, cioè senza sapere chi è l’altro. Mi sono anche chiesto il perché di questa fantasia, forse perché è il modo di avere un’amante segreta senza sensi di colpi”

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E come era nato il titolo?

“Boh! Vallo a sapere… Mi piaceva molto però e vedevo che piaceva anche a chi lo raccontavo, per quanto non ci fosse ancora la storia. E questo mi rassicurava.
Allora cominciai a pensare chi poteva essere il protagonista di un film ambientato a Parigi. Puntai su attori francesi come Belmondo e Delon ma non andò in porto e poi finii su Brando, che all’epoca pensavo si fosse ormai ritirato e invece stava girando Il Padrino.
E poi ci doveva essere il tango. Pensai che avrei potuto omaggiare il mio grande amico Gato Barbieri, un sassofonista tenore che aveva suonato in Argentina e poi a Roma (per finire a New York) che mi pareva essere il jazzista bianco più nero di tutti. Gli chiesi di farmi la musica ed uscì questa bellissima melodia. Addirittura chiamammo Astor Piazzolla dalla Fono Roma per fare l’arrangiamento e l’orchestrazione ma lui rifiutò, dicendo di non essere un arrangiatore ma un musicista. Qualche anno dopo ero a casa mia, suona il citofono ed è lui: Piazzolla! Sale e mi dice di aver visto il film e aver capito di aver fatto la più grande stupidaggine della sua vita a rifiutarlo. Mi omaggiò di un 45 giri che aveva fatto che si chiamava El Penultimo Tango a Parigi”.

Quel film rispecchia ancora i suoi anni secondo lei?

“Sì era l’onda lunga del ‘68, il concetto era di dover trasgredire in tutto. Poi avevo letto i libri di George Bataille, che erano molto erotici. Nel 1972 ancora si faceva molto presto a fare un film. Scrissi un primo soggetto io, poi chiesi di lavorarci a Giuseppe mio fratello ma solo con Kim Arcalli, montatore di Il Conformista, scrissi davvero la versione finale del film. Infine Brando fece diversi cambiamenti sulle sue battute per renderle più vere e meno scritte. È un momento fondamentale quando i personaggi scritti acquistano viso, occhi e carne. Il modo in cui questo personaggio si porta dietro una disperazione esistenziale è tutta lì. Pensare che Brando aveva 49 anni e io 31, mi sembrava un vecchio centenario. Oggi invece mi pare un uomo per nulla vecchio, di una bellezza incredibile.
In più poi ci sono due dialoghi tra Jean-Pierre Leaud e Maria Schneider, quando lei sta provando il vestito da sposa e quando le propone di sposarla, che feci scrivere a Moravia. Volevo quel tipo di scrittura semplice e sulle idee che aveva lui. Gli raccontai il senso delle sequenze e lui si mise al tavolo con una stilografica e dei fogli bianchi. In 15 minuti aveva scritto 6-7 pagine di dialogo che mi piacevano moltissimo.
Ho una debolezza per le contaminazioni e amavo questo tipo di inserimenti. Era proprio il massimo per me la contaminazione, un amore che credo mi viene da Roland Barthes. Ad esempio nel film Partner, che non andò bene e che quindi amavo di meno ma siccome siamo nel 50enario del ‘68 vale la pena ricordarlo, c’è un personaggio che vende detersivi porta a porta con degli occhi dipinti sulle palpebre (che all’epoca non sapevo essere una soluzione che si trovava già in Cocteau) e dice tutta una cosa sulla differenza tra detersivo e sapone che viene proprio da Roland Barthes, una di quelle trovate bellissime di Mythologies, in cui parla del piacere del testo quando il testo è contaminato, l’insieme di tanti stili contraddittori, cosa che uno a scuola impara che non bisogna mai fare. Lui parla di Kamasutra del linguaggio, io non resistendo ho inventato il termine Kamerasutra”.

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Il restauro ha anche riportato alcuni colori alla loro qualità e si nota come nelle prime scene nell’appartamento i gialli richiamino i quadri di Bacon che si vedono nei titoli di testa…

“Pensa che lo amavo così tanto che portai Brando a vedere la prima grande mostra di Francis Bacon al Grand Palais a Parigi (ci portai poi anche Storaro e gli altri collaboratori). Era poco conosciuto all’epoca, ma in lui avevo trovato la rappresentazione della disperazione che cercavo”.

È ancora vero che i film a cui tiene di più sono quelli di successo?

“Lo dissi perché volevo essere sincero e confessare questa mia debolezza. I film che sono andati meno bene, anche se li amo, li tengo a distanza perché mi ricordano per l’appunto l’insuccesso.
Ultimo Tango invece con il suo successo mi fece sbarellare, mi sentivo molto potente e proprio grazie a quel successo sono riuscito a fare un film come Novecento”.

Lei di Ultimo Tango disse che lo avevano capito solo le donne, anche perché la critica americana Pauline Kael l’aveva accolto con grande entusiasmo…

“Di fatto fece lei il successo americano del film, Pauline Kael era la Bibbia. Scrisse che averlo visto al Lincoln Center era come essere stati a Mosca a vedere la prima della Sagra della Primavera”.

Com’è cambiato il suo rapporto con la critica negli anni?

“Dipende quale. Pensa che Prima della Rivoluzione, il mio secondo film, andò a Cannes nel 1964 e su quasi tutti i quotidiani italiani del giorno dopo c’erano stroncature. Potevo scegliere se mettermi a piangere o picchiarli. Vieri Razzini scrisse: “Il giovane Bertolucci torni a scuola. Lo rivedremo a Settembre”. Invece i francesi dei Cahiers du cinema lo avevano adorato e infatti il film uscì a Parigi nell’inverno tra il ‘67 e il ‘68 e andò molto bene per essere un film d’essai, rimase 3 o 4 mesi in cartellone, anche perché esprimeva qualcosa che era nell’aria. La critica americana invece come detto fu guidata da Pauline Kael. Solo in Italia ebbi dei problemi, almeno fino a Il Conformista, quando incominciarono a trovare qualcosa nei miei film”.

foto_1_00088315La relazione lavorativa che ha avuto con Kim Arcalli è quasi unica, scrivere film con il montatore che poi li monterà. Come ha influito avere un montatore alla sceneggiatura?

“Beh aveva una grande importanza. Kim però non pensava al film in termini di ritmo e montaggio, era molto sceneggiatore quando scriveva, anche perché lui poi effettivamente non scriveva mai nemmeno una parola, quello lo facevo io. Era un personaggio extra ordinario, pensa che a 17 anni, nel 1944, alla prima veneziana di un Pirandello al teatro Goldoni, con tutte le alte sfere del governo di Salò, entrò da dietro assieme ad altri partigiani con i mitra, fermarono lo spettacolo lessero un manifesto, lo tirarono sulla gente e dissero di non muoversi perché il teatro era circondato e nessuno doveva provare ad uscire per mezz’ora. Nessuno si mosse e loro scapparono ma non c’era nessuno fuori. Dopo questo Kim si rifugiò in montagna e a 18 anni, dicendo di averne 22, era già commissario politico di una brigata Garibaldi”.

E il contrario? Al montaggio era importante avere uno sceneggiatore?

“No perché lui si dimenticava di essere anche sceneggiatore. Ovviamente forse senza rendersene conto badava di più a certe cose. Quando era al tavolo di montaggio teneva in mano la pellicola e per decidere la durata di un primo piano la misurava sulla tavola come fosse del tessuto. Quel che ho imparato con Arcalli (che scelsi già per Il Conformista perché rispetto all’altro mio montatore, Perpignani, non era così simile a me, non aveva la mia età, e io desideravo avere più scontri) è come nel materiale del film ci fossero cose che io stesso non sapevo esserci, era come andare in miniera e scoprire metalli preziosi che sono lì ma solo il montaggio te li fa scoprire. Tutto ciò andava contro la mia idea molto anni ‘60 che c’era solo l’autore con la A maiuscola e tutto era controllato da lui. No, c’erano cose che io non avrei mai potuto prevedere e che solo il montaggio metteva in evidenza.
Alla fine degli anni ‘60 ero arrivato a pensare che il montaggio fosse il luogo in cui finiva il bel caos che c’è nei giornalieri, un momento di pulizia sul materiale sostanzialmente, la sua razionalizzazione. Invece con Kim ho capito che era un momento creativo. In Russia lo sapevano da molto tempo invece… [ride]”.

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Quale dei suoi progetti mai realizzati avrebbe voluto realizzare?

“Ce ne sono due su cui avevo investito voglia e desiderio: uno è Piombo e Sangue, l’altro è L’Albergo Bianco. Ma almeno ad uno, Piombo e Sangue, rinunciai dopo aver visto Crocevia Per La Morte dei Coen, che è bellissimo e racconta praticamente la stessa storia. Non potevo fare di meglio”.

Vedo che ha un cofanetto di 24, le piacciono le serie?

“Beh sì, sono come il Conte di Montecristo, irresistibili, vieni preso dentro il racconto”.

Vedo anche che ha un buco nella parete per il proiettore, per caso è a pellicola?

“No ma che siamo matti?! Pensa che una volta al cinema Esperia a Roma andarono Giuseppe e Kim a vedere Novecento in seconda o terza visione ed era tutto mescolato, il film era stato recapitato in 30 pizze o giù di lì e capitava che i proiezionisti ne confondessero l’ordine. Per dire come alle volte potesse essere il livello di quel che la gente andava a vedere in sala quando si usava la pellicola, tutto sfocato con la pellicola che brucia…”.

 

 

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