Con Carlo Vanzina muore il più antico e classico dei registi italiani. Inscindibile dal fratello Enrico, sceneggiatore, Carlo è stato il regista di tutti i film e delle serie tv che hanno realizzato. Figli di Steno, i due hanno creato un sodalizio artistico di incredibile prolificità, senza senso considerata l’industria e gli anni in cui hanno lavorato. Hanno contemporaneamente portato avanti lo stile del padre e l’hanno contaminato di ossessioni tutte loro immediatamente riconoscibili.
Come se non gli interessasse il tempo hanno continuato a sfornare film come avessero vissuto e lavorato negli anni ‘60 al ritmo di almeno uno l’anno, attraversando tutte le fasi del cinema italiano dagli anni ‘80 ad oggi, dominandole alle volte, essendone dominati ad altre.

Dei due Carlo era il taciturno e il riservato, così era il suo cinema. Ha sempre cercato una regia chiara, pulitissima e improntata alla comprensione delle scene, totalmente refrattario ad ogni orpello di linguaggio moderno della messa in scena, è stato fieramente un regista italiano degli anni ‘50 trapiantato nella modernità. Lavorava sulle scene, sull’armonia tra costumi, luoghi, luci, volti, facce (il campionario di facce vanziniano è pazzesco) e poi ancora, dettagli, elementi di scena, oggetti e disposizione nelle inquadrature, raramente di fotografia, montaggio e movimenti di macchina. Del linguaggio del cinema amava la scena più dell’immagine, la creazione di una piccola realtà che poi andava ripresa cercando di farla vedere bene più che di modificarla con il montaggio o le luci. Non ha mai voluto essere grande e non l’ha voluto fermamente, con una determinazione che impressiona.

Odiare i film di Carlo Vanzina è stato il viatico fondamentale di molti cinefili. Ma chi ha continuato ad odiarli senza capirne i pregi è rimasto fermo all’adolescenza del gusto cinematografico.
Protagonisti negli anni ‘90 della stagione più dura del cinema d’incasso, autori di una serie di film scorreggioni ad altissimi livelli (sia di scorregge che di incassi), Carlo e il fratello Enrico sono rimasti indissolubilmente legati a quella parte, invero molto molto piccola, della loro produzione, tanto da essere ritenuti autori di tutti i cinepanettoni a seguire. Ma la differenza tra loro e i vari Oldoini, Neri Parenti e simili è abissale e non a caso, anche in quel genere, sono i loro film i più ricordati. I Vanzina hanno sempre avuto una poetica, uno stile, dei tratti chiari e dei temi ricorrenti che infilavano anche nei cinepanettoni più beceri (S.P.Q.R. ad esempio o A Spasso Nel Tempo portano avanti in toto idee e questioni vanziniane). Considerarli per quel 20% della loro produzione appare oggi più che mai folle, specie considerato che quella tradizione l’hanno creata con un caposaldo del cinema popolare, Vacanze di Natale, messo in scena con un’economia di gesti e precisione incredibile.

Mentre il fratello Enrico scriveva storie di piccolissimi borghesi in cerca di grandezza, pronti a disprezzare chi è come loro erano prima del benessere, e vittime del fascino di chi è come loro vorrebbero essere, Carlo li metteva in scena con una chiarezza e una precisione tale da renderli subito riconoscibili. Non è facile per niente. Jerry Calà che scende dalla macchina e mette la Timberland sulla neve è un brand vanziniano, nello stesso modo in cui lo è Mario Brega che impreca contro chi gli ha gettato addosso la neve, visto dall’alto. In ogni film di Carlo Vanzina l’inquadratura scelta è la più semplice possibile, la più diretta, la più indispensabile alla comprensione della scena. Sembra il minimo del linguaggio filmico (e probabilmente lo è) ma era da lui usato a tratti per creare quadretti impareggiabili per chiarezza e sempre al servizio della sceneggiatura del fratello. Come nei film italiani degli anni ‘50 che vengono trasmessi senza clamore a tutt’oggi i film di Carlo Vanzina scorrono senza grumi, sembrano srotolarsi senza che ci sia un regista, e per arrivare a questo serve un regista di eccezionale mestiere.

Autore di uno degli stacchi di montaggio più surreali, scemi e al tempo stesso ingenui, dolci e commoventi del cinema italiano degli anni ‘90 (quello di Il Cielo in Una Stanza con cui un figlio viaggia indietro nel tempo senza nessuna ragione e si trova di colpo dietro alla Lambretta del padre, i due sono Gabriele Mainetti ed Elio Germano), Carlo Vanzina ha girato anche gialli all’italiana (Sotto il Vestito Niente), melodrammi di classe (l’indimenticabile Amarsi Un Po’…), teen movie nostrani (Vacanze in America, Vado a Vivere da Solo, Piccolo Grande Amore) e l’unico buddy cop movie mai fatto in Italia (Piedipiatti). Tutto attraversato con quelle luci chiarissime che gridano “buona la prima” e che gli attirano gli strali di tutti, tranne che del pubblico.

Non era regista sofisticato, era un regista inarrestabile. Girava in poco tempo e a basso budget, era capace di fare tantissimo con pochissimo, era deciso sul set e inesorabile in fase di pianificazione. In una parola sapeva cosa voleva e sapeva metterlo in scena. I suoi film hanno la sua personalità e per quanto si tenda a categorizzarlo come regista sciatto (e va ammesso che in tanti, tantissimi casi lo è stato) ha creato degli stilemi che sono solo suoi.
Chi odia i Vanzina, in una parola, non li conosce. Chi li conosce impara subito ad amarne l’approccio scanzonato, impara a tollerare immediatamente le assurde banalità che costellano i film perché sono ampiamente compensate da trovate così pop, così aderenti ai generi che affrontano che non si trovano più.
Sì può dire senza timore di errore che chiunque ami e conosca per davvero il cinema classico italiano non può disprezzare i Vanzina. Nonostante i loro bassi.

L’attacco con instant music (le hit dei mesi passati) e immagini generiche che settano le coordinate spaziotemporali dell’azione (sciatori in montagna, bagnini al mare) sui titoli di testa sono Carlo Vanzina. I dialoghi filmati prevalentemente senza campo-controcampo ma con tutti inquadrati insieme (per favorire l’improvvisazione) sono Carlo Vanzina. Più tutta una serie di soluzioni squisitamente passate, come l’ingresso in scena dei personaggi sottolineato dalla musica, che solo Carlo Vanzina ha continuato ad usare dopo gli anni ‘70, costituiscono un campionario di invenzioni registiche attribuibili a lui, che lo posizionano nel reame di quei registi dalla mano evidente e subito chiara. Alcune prospettive le adottava solo Carlo, alcuni modi di riprendere gli interni, vestire i protagonisti, far interagire figli e genitori gridano “CARLO VANZINA” da ogni battuta. Ma anche le figure archetipe della commedia popolare italiana (lo squattrinato che usa la famiglia per darsi un tono, il fedifrago, il precisetto e il romano borioso) hanno continuato ad usarle solo i due fratelli. E Carlo li trovava di volta in volta nei loro attori feticcio, Ricky Memphis, Abatantuono, Max Tortora, Jerry Calà, Vincenzo Crocitti, Claudio Amendola

Sono questi due fratelli, per esempio, che hanno scovato, valorizzato e creato Guido Nicheli, come fossero davvero gli anni ‘60. Capire una faccia e un personaggio simile, usarlo come l’hanno usato, creandogli intorno personaggi di finzione che lavorassero e combattessero con quello che Nicheli davvero era, sfruttarlo negli anni giusti per i personaggi giusti nelle storie giuste, è prerogativa dei più grandi davvero. E anche se Carlo Vanzina tra i più grandi non c’è stato di certo per tutti i minuti di tutti i suoi film, oggi che è morto guardiamo indietro ai suoi momenti migliori e ci appaiono così tanti e così memorabili che pochi altri possono vantarli.

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