Ultimo cineasta avventuriero italiano, documentarista capace di cambiare l’idea stessa di cosa possa fare un documentario ampliando lo spettro delle sue possibilità e indefesso ricercatore di realtà umane normali e sorprendenti al tempo stesso, Roberto Minervini è una personalità incredibile che vive i suoi film nel senso stretto del termine. Per farli si trasferisce nei luoghi in cui deve filmare e ci abita per mesi e mesi e mesi, fino a fondersi con la popolazione, che accetta lui e la sua videocamera. Escono così opere mostruose come Stop The Pounding Heart o Louisiana in cui la realtà sembra cinema di finzione e ora è uscito What You Gonna Do When The World’s On Fire? in concorso alla Mostra del cinema di Venezia.

Con 150 ore di girato montate in 4 mesi e mezzo di lavoro con la sua montatrice Marie-Helene Dozo, fino ad arrivare a due ore e qualcosa film, il suo ultimo documentario contrariamente agli altri non nasce da però conoscenze maturate nei lavori precedenti, ma da un desiderio profondo.

“Potrei dire che è nato da esigenze maturate negli altri film. Con Louisiana avevo tastato il polso della situazione e del contesto socio-politico americano di 3 anni fa, quello che poi portò a Trump. E vista l’istituzionalizzazione e lo sdoganamento del razzismo (Trump ha levato il KKK dai potenziali terroristi domestici, concedendogli diritto di espressione) mi sono sentito in dovere di fare un film di questo tipo, su chi il razzismo lo soffre sulla propria pelle”.

Stavolta quindi come hai fatto a trovare i tuoi soggetti? Chi te li ha presentati? Come li hai conosciuti?

“Nessuno me li ha presentati, sono andato lì, nel quartiere nero per antonomasia di New Orleans e ho iniziato a frequentare un bar, il bar di Judy, la donna che è più protagonista del film. Solo le Nuove Pantere Nere invece le ho proprio contattate, c’è stato un carteggio e una serie di incontri infiniti dopo i quali, per ragioni che loro definiscono “spirituali”, hanno accettato di lavorare insieme”.

Come fai in un documentario del genere a decidere quando è ora di smettere di filmare?

“Mi prefiggo una data di fine riprese altrimenti non finisco mai. Di solito è la data del mio compleanno, quindi ogni 3 anni il 31 Luglio festeggio il mio compleanno sul set. Questo modo di lavorare lo chiamo di improvvisazione controllata, traccio delle linee al di là delle quali non devo andare, e il film finisce quando finiscono i giorni che mi sono dato”.

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Stavolta non c’è una storia vera e propria come nei precedenti documentari, non l’hai trovata o non l’hai voluta?

“Non l’ho voluta, perché trovate le persone con cui ho instaurato un rapporto sapevo di voler raccontare tante storie parallele, così che loro fossero i narratori di un canovaccio più esteso. Io sono bianco ed europeo, penso sarebbe stato suicida raccontare il film dal mio punto di vista, invece così ho solo assemblato queste storie. Ma fin dall’inizio era chiaro che non ci sarebbe stato un punto in cui farle convergere tutte”.

Fai i documentari con la voglia di mostrare, rendere onore e far vedere certe realtà, ma sei anche un regista e immagino tu abbia anche il cinismo del cineasta, cioè voler riprendere cose forti che sai che funzioneranno e renderanno appassionante il film. Come ti regoli?

“Certo che ce l’ho! Il cinismo del cineasta è molto presente in me e non lo nego, ma poi devo essere anche burattinaio di me stesso e far emergere altre facce della mia personalità come l’empatia, la compassione e il farsi da parte. Ad esempio con le Pantere gli chiedevo spesso se ci sarebbe stato uno scontro e loro dicevano che non potevano prevederlo ma io avevo già deciso di farmi da parte e affidarmi al caso, sebbene il cinico in me avrebbe voluto degli eventi da riprende. Invece il Roberto con maggiore empatia è quello che prende le redini in fase di montaggio. Ci sono momenti che potrebbero soddisfare il mio cinismo ma magari non rendono giustizia alla storia e ai personaggi e quindi li taglio. Il materiale che lascio fuori spesso comprende picchi altissimi di autosoddisfazione. Perché alle volte ci sono cose eccezionali che però non rendono giustizia e levano dignità e necessità di amor proprio ai personaggi. Per ognuno dei miei 3 film esistono film paralleli composti dagli scarti”.

Hai menzionato la manifestazione che si vede nel film, ma è normale che tu stia lì in mezzo e non venga menato dalla polizia durante lo scontro?

“No non è normale, sapevamo che la parola d’ordine era “stare dietro le transenne” per non essere arrestati. Non è la prima volta che giro una cosa simile, sapevo che se non fossi stato dietro la transenna ci avrebbero arrestato perché volevano levarci il girato. Per questo sono subito scappato dietro la transenna sapendo così di poter rinviare l’arresto e avere il tempo di passare la videocamera a Diego Romero, il mio operatore. Poi mi sono buttato a terra perché partivano gli spari. Siamo scappati solo quando ci è sembra un po’ più sicuro. Chiaramente in questi casi ci si prende dei rischi ed essere arrestati è la cosa più probabile che ti possa capitare”.

In te esiste evidentemente anche un po’ di spirito avventuriero, tanti si rifiuterebbero di correre questi rischi…

“Sì c’è e per farmi bello potrei dire che è la voglia di stare in prima linea per raccontare le storie da vicino ma non credere mi esoneri dal terrore. In quella scena di scontri e pallottole ero proprio per terra, rantolavo ed avevo difficoltà a respirare ma è il bello di lavorare in un gruppo in simbiosi, se io perdo il controllo emerge qualcun altro. Il cinema come lo faccio io non può prescindere dalla coesione di un gruppo che si muove di pari passo”.

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