A quanto pare è stato The Autopsy of Jane Doe a posizionare André Øvredal nelle grazie di Guillermo Del Toro, che avrebbe visto il film americano (e probabilmente anche il suo film precedente norvegese, Trollhunter) e avrebbe spontaneamente pensato a lui la regia di Scary Stories To Tell In The Dark, nel momento in cui ha deciso che non l’avrebbe diretto lui ma solo prodotto.

Questa è la storia che ha portato un regista norvegese che ha studiato regia in America e fatto più che altro film in Norvegia a collaborare con una delle massime autorità mondiali in fatto di horror.

Il film è arrivato ora nelle sale italiane e alla Festa del cinema di Roma, dove abbiamo potuto incontrare Øvredal per capire come funzioni quando dal tuo paese europeo vieni chiamato ad Hollywood a lavorare di punto in bianco in una grossa produzione con uno dei tuoi miti.

Come si arriva a fare un film del genere?

“Non lo si può pianificare. A me è capitato così, senza che potessi farci molto. Poi però, una volta che lo studio (o per me Del Toro) ha pensato a te c’è tutta una fase in cui devi andare ad Hollywood effettivamente e fare una serie di grosse presentazioni davanti ai dirigenti degli studios, devi insomma vincere su altri registi che stanno facendo lo stesso”

E chi erano questi altri registi?

“Parlavo in generale, nel mio caso specifico i produttori hanno detto che non hanno sentito altri registi, è stato semplicemente Del Toro a fare il mio nome. Due anni dopo sono qui a Roma a presentare il film”.

È difficile avere a che fare con un produttore come Del Toro? I suoi suggerimenti e le sue opinioni sono devono essere abbastanza ingombranti no?

“È lui che ha reso la cosa facile. Sono un fan di Del Toro e di colpo sono lì a prendere le redini del suo film. Ma lui mi ha detto: “Possiamo parlare di tutto, se hai dubbi chiedimi” e ha sempre opinioni interessantissime. Alle volte non eravamo d’accordo e magari diceva: “Ti raccomando fortemente di fare così!” ma sono comunque grandi consigli, parliamo di un maestro del filmmaking, un maestro del pensare i film dall’alto fino al basso.
Io non ho mai avuto un vero e proprio mentore e forse non posso nemmeno dire ora di averlo avuto, perché sono stato con lui solo un anno, ma lo stesso avere un filmmaker simile così vicino e così a lungo è la grande esperienza”

Qual è la miglior idea su questo film che è venuta da Del Toro e qual è stata la trovata che ti ha fatto ottenere questo film?

“Ce ne sono state tantissime, tutto il concept viene da Del Toro, quello del libro proprio, io proprio fin dall’inizio ho diretto una sua idea.
Invece la mia idea che è stata cruciale per i produttori è stata quella di fare il film nello stile Amblin, non un film pauroso e basta ma pauroso e divertente come quei film. Penso fosse ciò che volevano sentire, tutti si sono accordati su quello, perché qualsiasi horror può essere fatto in tante maniere diverse ma questo doveva essere il più spaventoso possibile nella categoria PG-13”

Era il genere di film che volevi fare?

“Io sognavo di ottenere un film così! Ho cercato una sceneggiatura così per anni, addirittura stavo per farne una sempre dei fratelli Hageman [gli stessi che hanno sceneggiato Scary Stories In The Dark ndr] simile a questa. E poi ad un certo punto mi arriva questa”.

Quanto è difficile imparare a lavorare su un set americano, stando alle loro regole ed esigenze, ma senza rinunciare ad essere creativo?

“In America quando fai un film così sei circondato da filmmaker che sanno cosa stanno facendo, gente che ha gestito gli Universal studios, prodotto tantissimi film e poi c’è Guillermo Del Toro! Intorno a te c’è gente che ama fare film e stanno lì non perché sono cinici, loro amano i film e questo è fantastico. Certo ci sono tantissimi soldi in gioco e tantissime opinioni che devi gestire, penso di essere preparato a questo però perché ho fatto pubblicità per tanti anni. Lì ho imparato a lavorare per un committente con opinioni che pesano e che sei parte i qualcosa di più grande, il film non è una tua affermazione individuale. Essere un autore ad Hollywood è difficilissimo con tutti quei soldi in ballo. Occorre lavorare in collaborazione, devi capire di essere un pezzo solo di un grande puzzle, un pezzo importante ma uno come gli altri che devi rispettare”.

Ti sei innamorato di questo modo di lavorare o vuoi tornare nel tuo paese?

“Leggo i giornali di cinema da quando ho 19 anni, sono intrigato dall’industria da sempre, quindi per me non è stata una cosa nuova, era come mi immaginavo. Ma amo anche fare film in Norvegia. Il mio prossimo infatti sarà un film norvegese che ho girato prima di Scary Stories To Tell In the Dark e poi probabilmente ne farò un altro americano e infine ne sto sviluppando un altro ancora norvegese”.

Il nuovo film norvegese è un horror?

“No è un drama fantasy, una love story road movie con un aspetto fantasy basato sulla mitologia norvegese”

Qual è la cosa più norvegese che si trova in scary stories?

“Il fatto che è molto concreto, anche una certa solitudine nel modo in cui le immagini sono composte e quello humor asciutto molto scandinavo. Poi non lo so, come filmmaker le cose le faccio e faccio fatica ad analizzarle”

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