Pandemia, ovvero come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare il virus letale, il nostro speciale sul cinema di contagio

 

Una Pandemia. Una pioggia di asteroidi, il nucleo magnetico terrestre che smette di girare, un’invasione aliena, una guerra mondiale combattuta a colpi di atomiche: il catalogo dell’armageddon è ben nutrito, e in questi ultimi anni si sta arricchendo a ritmo regolare di nuovi, straordinari modelli (il più noto e amato, “Catastrofe ecosistemica”, continua a spopolare sulle passerelle di tutto il mondo). Insomma: come qualunque appassionato di narrativa postapocalittica potrà confermarvi, ci sono decine di modi diversi in cui il mondo potrebbe finire.

In questo senso, le notizie più o meno confuse (e più o meno catastrofiste) che arrivano dalla Cina riguardo all’esplosione del coronavirus 2019-nCoV, e alla possibilità che la patologia si diffonda al punto da trasformarsi in pandemia e mietere milioni di vittime in tutto il mondo, suonano, alle orecchie dell’appassionato di cinema, come il grido di dolore e la richiesta di attenzione di un’apocalisse che non è mai riuscita a entrare nel cuore degli spettatori quanto le sue sorelle nobili Invasione Aliena e Guerra Atomica, e che ormai langue semi-dimenticata, quello che era il suo posto nel catalogo occupato dalla giovane e rampante Greta Thunberg Ti Guarda.

In altre parole, epidemie, pandemie e virus letali non sono mai davvero riuscite a fare il salto di qualità nell’immaginario collettivo – colpa probabilmente dell’intangibilità della minaccia, ottima sulla carta per generare tensione ma in pratica difficilissima da gestire, perché ci vuole l’idea giusta per ritrarre in maniera efficace un nemico invisibile. O forse è colpa della sua apparente plausibilità, e dell’ipocondria latente di un’industria che fa meno fatica a far vedere morti ammazzati e squartamenti che malattia e sofferenza in un letto di ospedale. O ancora: l’impossibilità di generare un vero e proprio conflitto con un avversario lungo pochi micron, e la considerazione che è inutile e controproducente accumulare tensione se poi non la si può sfogare con un po’ d’azione, e come fai a mettere in scena l’azione quando il villain è un raffreddore?
E quindi, per tornare al catalogo dell’armageddon: non è un caso che il modello Virus Letale sia così in basso nella lista delle preferenze e non compaia mai tra gli articoli più venduti, e la colpa è tutta sua e del suo essere invendibile e troppo astratto per il suo stesso bene. E non è un caso che la maggior parte dei film (e non solo) che parlano di patogeni stragisti siano in realtà film che parlano d’altro, nei quali il microrganismo assassino è un mezzo e non un fine. Non lo diciamo solo noi, lo conferma anche la scienza, che lavora silenziosamente e alacremente da decenni a un sistema di classificazione dei “film di virus letali” basato su una scala che va da “metafora spudorata” a “Contagion di Steven Soderbergh”; siamo anzi contenti di potervelo presentare qui, per la prima volta, in anteprima mondiale.

 

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Stadio 0 – Il virus sullo sfondo

La scienza si riferisce qui a tutte quelle opere di finzione che usano il Virus Letale (da qui in avanti: VL) come espediente narrativo all’interno di una storia che parla di tutt’altro – un metodo utilizzato per la prima volta dallo sconosciuto regista milanese Alessandro Manzoni nella sua opera mai filmata I promessi sposi (della quale esiste solo una sceneggiatura parecchio dettagliata). La tentazione sarebbe di citare Bandiera gialla di Elia Kazan (1950) come primo caso di Stadio 0: il film parla di un ispettore di polizia che lavora con un tizio dello United States Public Health Service per fermare due criminali infettati da un virus che rischia di causare un’epidemia di polmonite nella città di New Orleans. La malattia c’è ma non è il cuore del film, che è invece un gran noir con tutti i pezzi al posto giusto: indicativo del fatto che anche i grandi fanno fatica a mettere un minuscolo patogeno al centro della loro narrazione, e spesso preferiscono tenerlo sullo sfondo per concentrarsi su altri dettagli, tipo “gli attori” o “spaccare la testa allo spettatore con i paradossi temporali” (L’esercito delle 12 scimmie, forse il miglior film Stadio 0 di sempre).

Stadio 1 – Il virus come metafora

Lo stadio più complesso da studiare secondo gli autori delle ricerche, soprattutto per i motivi meglio esplicitati nel punto successivo. La peste di Camus è un esempio perfetto di come si possa usare un’epidemia (e di un batterio ben noto, non inventato per l’occasione) per parlare della disgregazione della società e di come possa l’uomo confrontarsi con un mondo che sa essere letale e soprattutto indifferente al nostro dolore (o, se preferite, per parlare di come si vive male sotto il nazismo). Se invece parliamo, come dovremmo, di cinema, La città verrà distrutta all’alba di George Romero è un esempio perfetto di Stadio 1: la storia è quella di un’arma biologica che colpisce un paesino della Pennsylvania e fa impazzire la gente, e non ci vuole un genio né serve conoscere Romero per accorgersi che The Crazies era (vent’anni prima di Twin Peaks) un film che usa la malattia per parlare del male che si nasconde sotto la facciata perfetta della pacifica provincia americana, e di quanto sia facile per la politica tirare erigere un muro intorno al bubbone e lasciarlo al suo destino (il più classico dei “l’area è in quarantena”, v. sotto).

 

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Stadio 1a – Gli zombie

Ed ecco la fregatura: nel 97,6% dei casi (±0,2%) di Stadio 1, il virus, o il batterio, o l’arma biologica che causano l’epidemia trasformano le persone in automi di carne senza raziocinio e interessati esclusivamente a nutrirsi di [carne umana/cervelli/altro]. Lo zombie è stato uno dei primi archetipi horror a finire al cinema (White Zombie ha solo dieci anni in meno del Nosferatu di Murnau), e lo zombie sociale, il non-morto come metafora di qualcosa, esiste in un’eterna ghirlanda brillante di variazioni da quando il succitato George Romero cambiò il cinema per sempre con La notte dei morti viventi. Il problema dei film di zombie è che raramente sono film sull’epidemia, sfruttata solo come espediente narrativo per accumulare centinaia di comparse (vere o in CGI) in un solo luogo e, nei casi migliori, farle saltare per aria; di regola lo zombie serve ad altro, è la faccia perfetta per milioni di metafore, per cui risulta complicato indicare, per esempio, L’alba dei morti viventi o [REC] come “film VL”: sono film che parlano di una creatura, non del microrganismo che l’ha generata, e dunque sono di norma sommamente disinteressati alla malattia in quanto tale, e più concentrati sulle sue vittime dirette o indirette. Ci sono ovviamente eccezioni, che ci riserviamo di indicare qui sotto segnalandole in quanto tali.

 

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Stadio 2 – Il virus come orrore personale

Uno dei punti di forza, narrativamente parlando, delle pandemie è che colpiscono milioni se non miliardi di persone, e se ben sfruttate possono aprire la strada ad alcuni degli scenari apocalittici preferiti dai designer d’esterni dell’armageddon – citiamo per esempio il classico Montagne di Cadaveri, e il sempre valido Città Collassate. Un virus letale, però, fa per sua stessa natura un sacco di cose bruttissime anche al singolo: il collasso del corpo umano sotto i colpi di un patogeno agguerrito è uno spettacolo affascinante, e da sempre nel cuore di coloro che usano il body horror come una persona normale usa il deodorante. Rabid è un esempio perfetto: c’è un’epidemia, certo, ma quello che interessa a quel vecchio sporcaccione di Cronenberg è la decadenza fisica della sua protagonista, infettata da un virus altamente contagioso che, tra gli altri suoi effetti, ha quello di farle spuntare un pene appuntito sotto l’ascella. Permetteteci però di citare anche due menzioni d’onore. La prima è il più classico dei “piccoli film”, un prodotto tutto italiano, scritto e diretto dal torinese Maxì Dejoie: The Gerber Syndrome – Il contagio, che parla di una pandemia (e sì, in un certo modo anche di zombie) ma lo fa concentrandosi su pochi, selezionati personaggi, analizzati molto da vicino nel loro rapido disfacimento. La seconda è Pontypool, forse un film di zombie, sicuramente un film di virus, con ogni probabilità un horror, comunque una pellicola nella quale la malattia si trasmette tramite il linguaggio, il che trasforma anche la più semplice delle conversazioni in un potenziale veicolo d’infezione.

Stadio 3 – Il virus come orrore sociale

Logica conseguenza dello Stadio 2, spesso inestricabilmente legato anche allo Stadio 1a, è quello che succede quando invece di raccontare la storia di Giancarlo e Carmela, coniugi in fuga dalla pandemia, si decide di raccontare le conseguenze della pandemia su tutti i Giancarlo e Carmela del mondo. Una classica manifestazione di Stadio 3 sono i film che infettano un nucleo umano (una città, una regione, una valle, una fattoria) e lo rinchiudono in quarantena, dando così l’occasione di mettere sotto la lente d’ingrandimento un campione campione significativo della società: Virus letale, un film dove Dustin Hoffman salva il mondo, è l’esempio principe, con la sua quarantena che si trasforma in nazismo nel momento in cui il governo decide che gli abitanti di Cedar Creek sono sacrificabili e istituisce la legge marziale. Ancora meglio però ha fatto Doomsday, film del 2008 di Neil Marshall, dove l’area in quarantena corrisponde con l’intera Scozia e che si occupa più che altro delle conseguenze di una pandemia ormai conclusa sulla società; il fatto che queste conseguenze comprendano tra l’altro la nascita di una società pseudomedievale governata da Malcolm McDowell non può che far bene all’umanità intera. Infine, segnaliamo una curiosa entità biologica, l’ibrido: tratto dall’omonimo romanzo di Saramago, Cecità con Julianne Moore è l’incrocio perfetto tra Stadio 2 e Stadio 3.

 

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Stadio 4 – Il virus come apocalisse

Come accade in svariati altri campi del sapere umano, anche nel caso della virologia dei film sui virus lo Stadio 4 è quello che succede dopo lo Stadio 3: abbattuti i muri della quarantena e abbandonate le rassicuranti quattro mura del microcosmo da Stadio 3, il virus tracima in tutto il mondo e le conseguenze non sono più quantificabili a livello sociale, semplicemente perché è l’intero edificio culturale umano che è andato a ramengo, crollando sotto il peso di miliardi di ferocissimi bacilli. Qui è dove è quasi impossibile sfuggire alla contaminazione da Stadio 1a: se bisogna distruggere il mondo intero è importante mettere una faccia a questa distruzione, e gli zombie sono la soluzione più semplice ed efficace. Pensate a 28 giorni dopo, a World War Z, a L’ombra dello scorpione di Stephen King, ovviamente a Romero. Ma pensate soprattutto alla saga di Resident Evil, dove gli zombie non sono zombie ma generici infetti, o mutanti, o comunque abbia deciso di chiamarli Paul W.S. Anderson nel suo lasso adattamento del franchise videoludico di Capcom; Resident Evil è la regina dello Stadio 4, una saga costruita esplicitamente sull’idea di virus come veicolo per l’apocalisse, la fine del mondo, il ragnarok. RE ha anche l’ulteriore merito di trasformare il patogeno in protagonista, di rispettarlo in quanto forma biologica, di dargli un nome un cognome e pure una personalità; recenti sondaggi dimostrano addirittura che i fan del franchise hanno il 76% di probabilità in più di ricordarsi il nome “virus T” rispetto al nome “Carlos Oliveira”.

 

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Stadio 5 (maturazione) – La scienza contro il virus

L’ultimo stadio evolutivo dei film VL è anche quello peggio rappresentato, e per ottimi motivi. Stiamo parlando di quei film come Contagion di Steven Soderbergh, ma anche di Contagion di Soderbergh o di quello lì di Soderbergh con Jude Law e Kate Winslet: film, cioè, che puntano al realismo, che trattano la pandemia come lo farebbe l’OMS, nati da mesi di ricerche e consulenze e scritti nel tentativo di raccontare e drammatizzare cosa succederebbe davvero se scoppiasse una tremenda pandemia, dal punto di vista di chi si troverebbe in prima fila a combatterla (medici, politici, ma anche giornalisti e militari). Perché la verità è che le epidemie di massa non sono neanche lontanamente sexy quanto vorrebbero, soprattutto perché nella realtà non fanno mai milioni di morti in pochi giorni come richiedono invece le esigenze cinematografiche: raccontare davvero l’insorgere di una pandemia richiede tempo, un fattore che un’opera che dura 90 minuti non sempre ha a disposizione. Soderbergh, con il suo simpatico piglio documentaristico, ci ha provato, e in tutta onestà ci è riuscito ragionevolmente bene: una delle leggi fondamentali della natura dice che è quasi impossibile che un film basato sulla scienza non riceva critiche dal mondo scientifico per la sua implausibilità, e Contagion è esattamente il motivo per cui nella formulazione della legge c’è quel “quasi”. Non è un caso che il film sia tornato di moda sui servizi di streaming: è il modo migliore e più divertente per sapere cosa potrebbe aspettarci se le cose con 2019-nCoV dovessero mettersi male.

 

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Cosa ne pensate del nostro viaggio attraverso le pandemie cinematografiche? Ditecelo nei commenti!

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