Quarantasette anni fa negli Stati Uniti George Lucas inventò con American Graffiti il blockbuster estivo.

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La sfida di FFC

Due anni prima il regista di Modesto, California, aveva esordito con un film (THX 1138) costato meno di un milione di dollari e che ne incassò a malapena due – un inizio di carriera potenzialmente devastante che avrebbe gettato chiunque nel panico. Lucas, però, al tempo aveva ancora voglia di lottare e decise di accettare una scommessa lanciatagli dall’amico Francis Ford Coppola: “scrivi un film mainstream”, lo provocò il futuro premio Oscar per Il padrino durante le riprese di THX. Lucas decise di ispirarsi alla sua adolescenza e di scrivere uno dei primissimi esempi della storia di “film nostalgico”, un coming of age ambientato dieci anni prima che celebrasse la cultura giovanile all’inizio degli anni Sessanta, prima delle contestazioni, del Vietnam e dell’omicidio Kennedy. Lo chiamò Another Slow Night in Modesto, lo imbottì di riferimenti autobiografici e cominciò a lavorarci durante l’estate del 1972.

Fu un massacro, che per certi versi fa sembrare il set di Star Wars un luogo tranquillo. Gli aneddoti sulla lavorazione di American Graffiti sono infiniti: Harrison Ford era sempre sbronzo e si divertiva a scalare ogni notte l’insegna dell’Holiday Inn dove alloggiava, Paul Le Mat finì in ospedale per un’allergia poi una volta uscito lanciò Richard Dreyfuss nella piscina del motel, un altro attore diede fuoco alla stanza di Lucas, due operatori quasi ci rimisero le penne girando la scena della gara di macchine… Lucas non ha mai avuto un grande controllo dei suoi attori sul set (è il suo più grosso difetto da regista), e a giudicare da quello che si racconta su American Graffiti anche fuori dal set le cose non andavano meglio almeno all’inizio.

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Dov’eri nel ’62?

Il film però venne completato in tempo record, ribattezzato, appunto, American Graffiti, e lanciato al cinema in pieno agosto, dove incassò uno spaventilione di dollari e divenne un modello da seguire per moltissime pellicole estive e pure per la TV (Happy Days è il caso più clamoroso). Fu un successo talmente enorme che Lucas divenne milionario nel giro di pochi giorni e investì una parte dei suoi guadagni in quello che poi sarebbe diventato Star Wars, e fin dal giorno della sua uscita American Graffiti è considerato un capolavoro, con tanto di posto riservato nel National Film Registry. Quarantasette anni dopo potrebbe essere lecito chiedersi “lo è davvero?”, soprattutto considerando che parliamo di un film la cui tagline al momento del lancio era “Where were you in ’62?” – che effetto può fare un’opera che parla di adolescenza su intere generazioni la cui adolescenza è stata completamente diversa da quella raccontata da American Graffiti?

È significativo quello che scrisse Roger Ebert, che nel 1962 aveva vent’anni, nella sua recensione dell’epoca: “Non è solo un gran film ma anche un lavoro geniale di fiction storica; nessun trattato sociologico riuscirà mai a battere il film nel farci ricordare com’era essere vivo in quel preciso momento culturale”. American Graffiti è, in effetti, un film che chiunque sotto i sessant’anni deve vedere con Wikipedia aperta di fianco per apprezzarlo del tutto: Lucas racconta un’America molto specifica e circoscritta nel tempo, che coincide con l’inizio della British invasion musicale e con i primi venti di guerra (o quantomeno di coinvolgimento statunitense nella guerra) che soffiavano dal Vietnam, nella quale si praticava il cruising ed esistevano i greasers, e chiunque non abbia vissuto quegli anni in prima persona non può che guardare American Graffiti con la fascinazione che si riserva a un documentario di antropologia; e il sospetto è quello che questa sensazione di alienazione cresca costantemente con il passare degli anni e delle generazioni: se avete modo provate a far vedere il film a una persona sui quindici/sedici anni e fateci sapere come ha reagito (in particolare a battute come “true rock and roll died with Buddy Holly”).

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Ricordo di un’estate

D’altra parte però American Graffiti parla più in generale di crescere e diventare adulti, e in particolare di quella mitizzatissima (anche qui da noi) “ultima notte”, l’ultimo respiro dell’ultima giornata dell’ultima estate prima dell’inizio di una nuova era, che nello specifico americano coincide con “andare al college”. E sì, è vero che il processo di crescita e di presa di coscienza e di ingresso nell’età adulta è graduale e abbastanza lento che è difficile accorgersene finché non è troppo tardi, ma è anche vero che quasi chiunque si ricorda un istante, un evento, un dettaglio che negli anni si è allargato fino a identificarsi con “quel momento”, quello in cui è cambiato tutto. Ecco, American Graffiti è un film su quella ultima notte e su “quel momento”, e in questo senso non è invecchiato né passato di moda: perché non può davvero invecchiare, perché l’idea del rito di passaggio all’età adulta è vecchia come la nostra specie, cambia solo il modo in cui viene declinato – e nel 1962 veniva declinato sul sedile reclinato dell’automobile di papà, infrattata in un parcheggio e con della gran musica surf che esce dagli altoparlanti.

American Graffiti quindi riesce nell’impresa di essere un film puntuale ai limiti del documentaristico e una parabola universale nella quale chiunque abbia avuto un’adolescenza nel mondo occidentale può riconoscersi in qualche modo (gli stessi personaggi del film sono, secondo Lucas, diverse versioni di lui stesso, in differenti momenti della sua vita). Ha quasi cinquant’anni, parla di una cultura che ne ha sessanta, eppure come i migliori coming of age – da Stand By Me ai film di John Hughes, e non è un caso che nella colonna sonora di American Graffiti ci sia anche la versione originale di 16 Candles, datata 1958 – ha qualcosa da raccontare anche a chi di quella cultura non sa nulla.

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Un elemento quasi completamente assente da American Graffiti: i boomer, o meglio, il conflitto con la generazione precedente, qui nella foto rappresentata dall’anziana coppia. Lucas lo ignora completamente e preferisce concentrarsi solo su una fascia d’età.

O se preferite la versione breve, è un film archetipale, che inventa una serie di maschere che ritorneranno nei cinquant’anni successivi con tutte le varianti del caso (il personaggio di Terry, per esempio, è McLovin con quarant’anni d’anticipo); maschere delle quali è peraltro interessante studiare il cambiamento e confrontarlo con il mutare della cultura e delle sensibilità: oggi una sottotrama come quella dedicata a John Milner e a una ragazzina dodicenne che minaccia di accusarlo di tentato stupro se non la porta in giro in macchina tutta la sera non vedrebbe la luce del sole, per esempio, e d’altra parte, a proposito di macchine, l’ossessione del film per i motori e per l’automobile come simbolo e non solo come mezzo è qualcosa che oggi può risultare quasi incomprensibile. Insomma, sarebbe interessante leggere un trattato di sociologia intitolato “Affinità e divergenze tra l’adolescenza negli anni Sessanta e oggi”, ma come disse Roger Ebert non sarebbe mai interessante come riguardarsi American Graffiti un’altra volta.

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