Nel commentare la morte di Steve Jobs, avvenuta questa notte intorno all’una, Barack Obama l’ha accostato a Thomas Edison, per anni simbolo individualista della figura dell’inventore innovatore, ultimo di una stirpe che si credeva estinta, quella degli inventori bottegai, singoli individui in grado di creare dal nulla lontano dai centri di ricerca.

Se l’inventore tecnologico moderno ha un modello dunque è quello di Steve Jobs. Astratto, new age, minimalista e caratterizzato da una forte ideologia, in vita non ha inventato nulla ma ha creato ecosistemi tecnologici in grado di favorire l’adozione di determinate tecnologie. Il mouse, l’interfaccia grafica e poi il touchscreen, il lettore mp3, l’idea di smartphone o anche solo il concetto di tablet sono tutte intuizioni che vengono da altre parti, come le molte cause intentate contro la Apple dimostrano, ma che in precedenza nessuno era riuscito a far sopravvivere al di fuori della fabbrica, ovvero nelle case o in mano alle persone.
Se si dovesse riassumere al massimo, il vero trionfo di Jobs è stato quello di far sì che le persone utilizzassero la tecnologia, ovvero essere artefice numero uno del più grande racconto possibile oggi: quello dell’ingresso dell’elettronica nella nostra vita.

Jobs ha molto fallito ma anche molto trionfato, proprio in virtù del pensiero che si celava dietro le sue creazioni. Pensiero che gli ha fruttato negli anni molti nemici ma anche molti adoratori e che era evidente fin dall’inizio, quando in un’era di centro di calcolo immaginava il computer personale, una rivoluzione mostruosa che annunciava un futuro di personal media.

 

 

Capostipite degli intellettuali tra gli imprenditori tecnologici, è l’unico ad aver vinto anche diversi Oscar (perchè nel "tempo libero" investì e diventò co-proprietario della Pixar, una cosa che gli sembrava il futuro). Il suo pensiero si riscontrava nel modo in cui tutte le sue creature si assomigliassero anche al di là del design. Software e oggetti che rispondevano ad un’idea unica di cosa debba essere la tecnologia: bella a vedersi per essere comprata (idea già alla base della Radio Music Box di David Sarnoff, la prima radio che la gente metteva in salotto), mostruosamente semplice da usare, essenziale nelle funzioni e in grado di fare tutto da sola.

Vendere musica quando nessuno voleva comprarla offrendola ad 1$ ma legata al suo iPod (venduto a 500$), vendere un telefono che come molti è connesso a internet legandolo indissolubilmente ad un contratto flat per la navigazione, promuovere quella nuova tipologia di software che è l’app e infine tentare (chissà se sarà così) di superare l’era dei portatili con l’iPad.

Le sue idee non erano certo prive di punti oscuri, come il totale rifiuto dell’apertura del proprio software. Fiero sostenitore del codice proprietario non voleva contaminare i prodotti Apple con innesti esterni. In questo era simile al collega/rivale Bill Gates, entrambi espressione di una Silicon Valley vetusta e diversa da quella di Google, Facebook e le nuove società che dell’apertura del proprio codice, della condivisione e del gratuito fanno una pietra angolare di business. Eppure sempre a lui queste si ispirano, con i loro motti e i loro mantra intellettuali che fanno da formina alle proprie creazioni. “Don’t Be Evil” di Google o “Un personal computer su ogni scrivania” di Gates: tutti slogan che miravano ad avere il medesimo appeal di quello slogan che Jobs non ha mai pronunciato ma che era evidente in ogni prodotto.

Certo anche lui aveva dei modelli, si rifaceva alla Sony degli anni ‘70, quella dei progetti innovativi e folli come il Betamax o il Walkman, strumenti nuovi e inediti il cui lancio è stato ben più che problematico ma che hanno dato una forma ai consumi e alle abitudini delle persone. E non è difficile intuire che ora il destino della Apple sarà simile a quello della Sony dopo l’era di Akio Morita, una grandissima società non diversa dalle altre, priva del guizzo impensabile ma stabile nei profitti.