Prendere però il nuovo film del regista tunisino come Come sempre a posteriori il risultato sembra abbastanza prevedibile.

In una giuria colma di cineasti e attori dediti al cinema classico, quello delle storie e dei personaggi e non della forma sperimentale, non poteva non esserci un trionfo per un film come La vie d’Adele, specie considerato che tra i giurati è presente anche l’autore di Brokeback Mountain.

Ad ogni modo è una Palma D’Oro meritata in un’edizione durissima, piena di film eccezionali come raramente capita. E’ confortante quindi che in un concorso così complesso abbia vinto un film che riafferma la potenza del cinema a più livelli di lettura, che regala una storia abbastanza semplice (una relazione sentimentale vissuta dall’inizio alla fine) con una maestria capace di suggerire diversi livelli di coinvolgimento e attraverso una narrazione che appare semplice e minimale (macchina a mano, inquadrature ravvicinate, pochi virtuosismi) ma in realtà è complessa ed estremamente raffinata, il massimo del cinema per il massimo della comprensibilità. La vie d’Adele appare come un film che, al netto delle 3 ore di durata (ma volano) e del premio vinto (spesso un deterrente per gli spettatori più che un’attrattiva), può avere un percorso dignitoso in sala.

 Non erano invece dotati di livelli di lettura così immediati i pretendenti. Non lo sono questa volta i Coen, cineasti meravigliosi che arrivano di nuovo secondi. Per loro solo una Palma d’Oro in carriera e tanti altri premi minori, un risultato decisamente ingiusto considerato come siano gli unici oggi nel cinema americano a girare opere così complesse e innovative, antinarrative e audaci, all’interno del sistema degli studios e con attori di primo piano. Inside Llewyn Davis è un capolavoro, ma inevitabilmente per pochi.

Non è un film semplice e diretto nemmeno La grande bellezza, rimasto senza premi, escluso da tutto e senza meritarselo. Sorrentino ha girato un film ambizioso e audace, pieno di momenti poco riusciti ma anche l’unico in grado di cercare quel tipico movimento del cinema che è il carrello ad uscire, cioè partire da un uomo e la sua piccola e risibile tragedia per allargare sempre di più il campo a tutta l’umanità, e lo fa a tratti in maniera straordinaria. Nemmeno Toni Servillo, qui ancora più incredibile dei suoi standard, è riuscito a vincere, al suo posto Bruce Dern, colonna di Hollywood, che in Nebraska fa il più classico dei vecchietti con quel mestiere che tanto conquista ma poco convince. Un premio, questo, davvero ingiusto.

Come ingiusto appare anche il premio alla regia per Heli, film tra i più insulsi del concorso, velleitario e ricattatorio, ma soprattutto diretto con atteggiamento falso e menzognero. Cosa ci abbia letto la giuria (diretta peraltro da un regista tecnico come Spielberg), sarebbe davvero interessante da sapere.

E’ invece condivisibile il premio a Berenice Bejo, la sua insostenibile protagonista di The Past è in grado di portare allo spettatore odio e compassione, frustrazione e repulsione, adesione e comprensione. In un film (anche questo bellissimo, e anche questo meritevole di una Palma d’Oro, fosse stata un’edizione meno difficile) che le regala una parte e delle battute di alto livello, lei è pronta e non sbaglia un colpo.

Non ci dobbiamo insomma lamentare troppo della mancanza di riconoscimenti (quello a Miele è un contentino che non va calcolato, Cannes assegna un miliardo di piccoli premi, ma quelli che pesano sono unicamente i principali) in un’edizione di livello così alto. Un po’ perchè è nostro il film rivelazione, Salvo, un po’ perchè abbiamo giocato bene e per fortuna il cinema è più una questione di fare cose buone che di vincere le partite.

Infine una legge non scritta vuole che quando Cannes è forte Venezia sia debole e viceversa (come fu l’anno scorso). Se così è a Barbera dovrebbero essere rimaste le briciole quest’anno.