Non un franchise con una trama ben determinata, ovvero un filo rosso che colleghi tutti i film unendoli in un’unica grande storia, nè un franchise “procedural”, uno alla 007, in cui ogni film fa storia a sè, e in cui gli attori si avvicendano in ruoli diversi o nel medesimo. Quella di Fast & Furious è una saga particolarissima, legata solo dai due aggettivi del titolo (sebbene potrebbero essere attribuiti a qualsiasi film d’azione) e simboleggiata, come nell’intenzione del primo film, dalle auto.

E’ la saga meno sensata e meno plausibile di sempre, tuttavia poche altre hanno mantenuto il medesimo livello di aderenza all’implicita promessa del titolo.

Con i primi 3 film appartenenti a tre generi cinematografici diversi e il quarto tutto votato a riprendere per i capelli la trama per rilanciare una nuova serialità, più coerente e legata, il franchise delle auto è stato miracolato dall’arrivo di Justin Lin nel terzo episodio, regista solidissimo e consistente, maestro di montaggio e sacerdote del cinema d’azione secco e asciutto, il quale non solo è riuscito a rimettere sui binari tutta la storia ma ha anche (con calma e ordine) ripreso le fila di ogni personaggio fino a riportare tutti dentro la storia.

E’ uno dei pochissimi casi in cui il senso della storia è stato creato a partire dalla metà, cercando di rimettere insieme i pezzi sparpagliati in precedenza. Si potrebbe dire insomma che l’intera saga (vista nel suo insieme) sia in equilibrio tra la distruzione di un senso globale (i primi 3 film) e il tentativo di ricostruirlo a posteriori (i secondi 3 film).

Il primo, l’esordio, era un action con pochi fronzoli e poche pretese, caratterizzato, ovviamente, dalla presenza di Vin Diesel e girato intorno a lui e al suo personaggio (peraltro scritto da quel diavolo di David Ayer). Per questo motivo, mancando il perno centrale, il secondo episodio è diventato un buddy movie, poichè Paul Walker non ha la caratura per reggere un film da solo (e contemporaneamente stimolare interesse nel pubblico) mentre una storia a due, divisa nel più classico bianco vs nero, con un’iniezione d’umorismo molto forte e per nulla originale (ma attenzione questo è un pregio al boxoffice!), aveva nettamente più possibilità di essere vista.

Ma il capitolo davvero sorprendente però è il terzo, Tokyo Drift, in cui cambia l’ambientazione e in cui mancano i protagonisti degli altri film. Una storia totalmente slegata che cerca di portare avanti unicamente lo spirito di Fast & Furious ma in realtà quel che porta avanti è solo il concetto di “film di macchine”, giacchè quell’idea di contrasto tra polizia e criminali (che comunque sono più retti dei poliziotti) si era perso da tempo e poco centra con i drift giapponesi.

 

 

Eppure, magie del cinema, quel terzo capitolo è quello rivelatore, perchè nel casino generale e nell’assurdità più cupa emerge Justin Lin, capace di creare interesse intorno ad una storia pretestuosa puntando solo sullo stile di regia e sulle sue capacità di raccontare la velocità, il rischio e tutto ciò che è legato realmente allo spirito Fast & Furious.

Tokyo Drift incassa la metà dei due film precedenti ma nella chiusura lancia la più assurda e fuori luogo delle provocazioni: il ritorno di Dominic Toretto. Impossibile non fare un quarto.

E di tutti è forse proprio questo quarto film, Fast & Furious – Solo parti originali, quello più da studiare, un’opera di ingegneria del cinema, o meglio della serialità al cinema, girato per soddisfare tantissime diverse idee ed esigenze.

Da una parte è tornato Vin Diesel e tocca riprendere le fila della serie secondo il genere del film originale, dall’altra occorre spiegare cosa centrasse mai quell’episodio a Tokyo e poi ancora rimettere in scena i personaggi originali, la loro storyline e proiettarla in avanti aprendosi ad ulteriori possibili sequel.

Lin riesce a fare tutto, con un particolare virtuosismo che consiste nel creare piccoli buchi temporali nel film durante i quali si dovrebbe svolgere Tokyo Drift (infatti uno dei personaggi di quel film appare e scompare dalla storia perchè in realtà deceduto in Giappone). Non un prequel nè un sequel ma un film che avviene durante quello che lo ha preceduto in sala. La parte americana mangia così lo spinoff nipponico, lo ingloba e lo digerisce per andare avanti.

Roba da manuale del cinema commerciale.

 

 

Da quel momento Justin Lin diventa indispensabile quanto Vin Diesel, il quarto film incassa più di tutti gli altri, e per il quinto episodio aumentano le aspettative e le assurdità.

In Fast Five si riunisce tutta la banda (che comprende anche, per dire, il personaggio di Tyrese Gibson, presente solo nel secondo film) e nuovi membri si aggiungono, tra i quali il peso maggiore, in tutti i sensi, lo ha Dwayne “The Rock” Johnson.

Siamo negli anni “Mercenari”, cioè quel breve periodo in cui il cinema d’azione (sulla scia prima dell’annuncio e poi dell’effettiva uscita dell’all star action di Stallone) si è innamorato dei film d’azione con gruppi di uomini virili e la serie veloce e furiosa non si è potuta esimere dall’aderire alla tendenza.

Fast Five mette insieme il cast più nutrito di sempre (per la serie) e pensa in grande: si trascinano caveau per un’intera città, si gira il mondo e se Stallone sta per incontrare Bruce Willis, Schwarzenegger e tutti gli amiconi di una volta, Vin Diesel si mette accanto l’unico che per età, curriculum e carico sulla panca possa fargli da spalla, in un confronto utile più per il trailer che nel film.

I soldi si moltiplicano un’altra volta e da incassi nell’ordine del centinaio di milioni di dollari lo sfruttamento del cast più grosso fa fare il salto alle due centinaia di milioni. E la cosa veramente stupefacente continua a rimanere la maniera nella quale Justin Lin mantenga coerente lo spirito della serie, il taglio delle scene d’azione con un’occhio e un modo di intendere il racconto avventuroso personale e fresco al tempo stesso. Pochi oggi sanno essere così seri e dignitosi nel fare action movie iperbolici.

Non è più uno spoiler dire che in Fast & Furious 6 ci sarà di nuovo il personaggio di Michelle Rodriguez (in teoria morta in Solo parti originali), segno ulteriore della tendenza di molto cinema seriale ad utilizzare le stesse soluzioni e gli stessi espedienti della soap opera (che ha insegnato a tutti come si tirano per le lunghe le trame). Così arriva anche la resurrezione miracolosa, o meglio il: “Non era davvero morta!”.

Ma poco importa, com’è evidente la saga dalle mille vite non ha mai temuto di scambiare un po’ di ridicolo per un po’ d’azione.