Fu scritto perché lo dirigesse Truffaut, poi offerto a Godard, alla fine arrivò ad Arthur Penn.

In questi tre passaggi c’è tutto il senso profondo che ha avuto Gangster Story per il cinema americano, il ponte tra le innovazioni di linguaggio europee e la rivoluzione del cinema hollywoodiano.

Innamorati della Nouvelle Vague, gli sceneggiatori David Newman e Robert Benton (poi regista di Kramer contro Kramer) lo scrissero come una storia nuova, dinamica, ispirata allo stile libero che vedevano arrivare dalla Francia. Non volevano un film da studio hollywoodiano, volevano rompere anche loro con il solito linguaggio del cinema. Il film ci sarebbe riuscito oltre ogni possibile immaginazione e ce l’avrebbe fatta senza attingere a forze europee. Una rivoluzione tutta americana negli anni della controcultura, che attingeva alla mitologia anni ‘30 per parlare del presente, di Kennedy, del Vietnam e della rabbia giovanile contro il sistema.
Di fatto l’inizio della New Hollywood, il periodo di massima rivoluzione del cinema americano.

Gangster Story, nella forma che conosciamo oggi, è il frutto dell’unione di tantissimi talenti, non solo quello di Benton e Newman, che l’hanno scritto, ma anche quello di Warren Beatty, in quegli anni sempre più intenzionato a diventare produttore e dare una forma ai propri film. Il doppio ruolo all’epoca non stava molto bene, Beatty aveva anche voce in capitolo nelle modifiche dello script, ma in seguito gli attori-produttori sarebbero diventati una consuetudine oggi più viva che mai. Non ultimo poi ci fu il talento di Arthur Penn, il più innovativo tra i cineasti già in attività nel 1967, scelto dallo stesso Beatty (nonostante le tantissime resistenze iniziali) dopo essere stato a Parigi e aver incassato il rifiuto di Truffaut e Godard nonché, in seguito, quelli di George Stevens, William Wyler, Karel Reisz, John Schlesinger, Brian Hutton e Sydney Pollack.

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Il film del resto era molto inviso ai vecchi dirigenti Warner Bros, e nonostante fosse stato distribuito con poca fiducia (inizialmente in un numero basso sale e solo in cinema selezionati, con una promozione ridotta all’osso) fu un successo devastante tra i giovani, diventando un manifesto della controcultura. Come poteva essere altrimenti? Non faceva che affermare che l’unica via d’uscita da un sistema di polizia ultraviolento era l’anarchia, la ribellione e l’amore. E lo faceva con un linguaggio d’immagini nuovo e rapido.

Per fare tutto questo Benton e Newman raccontano una storia di 36 anni precedente, pensata per rispecchiare il 1967. Più o meno lo stesso lasso di tempo che separa il 2017 dal 1983, anno in cui inizia Stranger Things. Per il pubblico di allora Gangster Story scatenava il medesimo tipo di nostalgia di un’epoca che non avevano vissuto che oggi scatena la serie dei fratelli Duffer. Del resto gli sceneggiatori erano nati uno nel 1937 e uno nel 1932, mentre il film è ambientato nel 1931 (Penn invece quegli anni li aveva vissuti perché era del ‘22).
Eppure quei 30 anni non sono paragonabili ai 30 anni passati da Stranger Things, c’era di mezzo un oceano di costumi, attualità, guerre mondiali, economia, mutamenti sociali e geopolitici.

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La caratteristica principale del film di Penn però è proprio il tono spezzettato, sconnesso e rapido dei film della Nouvelle Vague: inizia nel silenzio con Bonnie che incontra Clyde mentre questi cerca di rubargli l’auto e la fa subito scappare con lui, come fosse talmente logico da non necessitare preamboli. Solo dopo la prima rapina sarà completata l’introduzione del film, cioè capiremo che nonostante siano ladri, questi ragazzi pieni di vita e voglia di essere diversi, non sono odiati dalle persone perché il vero nemico di tutti sono le banche che rapinano.
Quel che seguirà sarà una versione on the road dei veri eventi: prenderanno con loro un benzinaio come autista (chiamato C. W. Moss), rapiranno due persone finendo per diventarci amici (Gene Wilder, in un cammeo in cui regala gli unici veri momenti di comicità del film), si unirà a loro il fratello di Clyde e rapineranno in allegria le banche tra il Texas e l’Oklahoma, saranno quasi uccisi in un conflitto a fuoco e, una volta ripresisi, saranno traditi dal padre di C. W. (il quale appena rivede il figlio si lamenta del suo tatuaggio come fosse un genitore del 1967 davanti al figlio hippie), attirati in un’imboscata in cui verrano massacrati di pallottole.

Molto del senso del film era ovviamente rappresentare i criminali come eroi, personaggi anti-sistema, ribelli per antonomasia che hanno il coraggio di vivere una vita diversa senza piegarsi alle regole che una società in declino (erano gli anni della grande depressione) sceglie per loro.
Certo, il cinema americano veniva dalla moda dei film noir, in cui i protagonisti erano spesso criminali, ma quelle erano storie romanticissime di uomini e donne disperati, peccatori irredimibili che sapevano di fare la cosa sbagliata. Erano esseri umani presi nella rete del crimine in un mondo marcio, densi d’autocommiserazione ed eroici proprio perché destinati a fallire e morire. Erano insomma dei poveri diavoli da compatire e con cui piangere.
Bonnie e Clyde in Gangster Story sono degli eroi per i quali si piange e non “con cui” si piange. La loro scelta è un esempio e non una condanna, è mostrata come l’unica maniera vera di vivere in quegli anni.

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Umani, fragili, passionali, vitali, divertenti, simpatici, capaci di imprevedibili colpi di testa, feroci con ogni autorità, condannati dal mondo dei genitori e fedeli solo alle loro regole. Non poteva che essere un film perfetto per il mondo del 1967, ad un passo dall’estate dell’amore e dal ‘68 europeo. Con una simile presa di posizione, così radicale, di fatto il film apre la strada ad Easy Rider, arrivato l’anno dopo, raccontando praticamente la stessa storia (outsider liberi in viaggio per l’America che vengono repressi dall’autorità).
Lo stesso non sarebbe stato possibile arrivare a quel successo commerciale devastante e a quei premi (vinse 2 Oscar, fotografia e miglior attrice non protagonista) solo incrociando in pieno lo zeitgeist, serviva anche un linguaggio cinematografico nuovo. E quello è tutta farina del sacco di Arthur Penn.

Glielo volevamo sbattere in faccia!” è come lo spiega PennSe c’è la guerra in Vietnam allora io non farò un film tutto pulito e immacolato, in cui gli spari non si sentono. Ca**o se sarà violento! Non volevamo fare quel che gli studios avevano sempre fatto, cioè non inquadrare mai la vittima dello sparo assieme allo sparo che parte, non volevamo assecondare il loro atteggiamento”.

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Il riferimento è al codice di autoregolamentazione Hayes entrato in vigore alla fine degli anni ‘30 per porre fine alla violenza eccessiva nei film (paradossalmente i più indiziati erano quelli Warner Bros, poi produttore di Gangster Story). Da quel momento in poi gli studios si autocensurano, realizzano solo film in cui la violenza non appare efferata e i contenuti scomodi vengono attutiti (anche se i migliori cineasti inventavano modi incredibili per suggerire lo stesso quel che non si poteva mostrare). Quel codice era già abbastanza in disuso nel 1967 ma nessuno lo aveva mai disatteso così platealmente e brutalmente come Gangster Story. Il film è tutto violentissimo e in particolare nel finale Penn fa il suo capolavoro, unisce il ralenti di I Sette Samurai, la chiusa di Fino All’Ultimo Respiro e riferimenti (oggi più difficili da cogliere) al filmato di Zapruder della morte di Kennedy (il colpo alla testa) per trionfare nella morte.

In Gangster Story era infatti la prima volta che vedevamo i personaggi davvero imbrattati di sangue da capo a piedi. Rossi e claudicanti, mostravano la morte incombente su di loro con una connotazione cromatica fortissima, l’unico modo per rappresentare graficamente l’accanirsi del sistema contro di loro, la violenza con cui erano odiati. In Gangster Story non si poteva che stare con Bonnie e Clyde anche perché la loro morte non arriva subito, erano quasi torturati (assieme al pubblico dell’epoca) tramite l’abuso di violenza, così che inesorabilmente scattasse il meccanismo matematico dell’immedesimazione cinematografica.

peraPer creare la mirabolante sequenza finale, il delirio di spari e montaggio, fu sperimentata per la prima volta una tecnica poi diventata uno standard ancora in uso: l’uso di mini cariche esplosive sotto i vestiti che lasciano esplodere sacchetti di liquido rosso in tutto il corpo (erano preservativi), simulando il colpo ricevuto. Beatty e Faye Dunaway ne erano pieni.

Ma il vero colpo da maestro è l’attimo finale in cui 4 tagli di montaggio velocissimi fanno sì che, prima di essere crivellati, Bonnie e Clyde vivano un attimo in cui si rendono conto di cosa sta per accadere e si guardano un’ultima volta, mezzo secondo di recitazione che contiene uno tsunami di sentimento. Quest’invenzione è in assoluto la più copiata, abusata, riutilizzata e influente di tutto il film, un vero cut brutale da Godard adattato alle logiche del cinema americano.

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Più puerili e datate semmai suona il rapporto sessuale tra Bonnie e Clyde, un altro tabù dell’epoca sventrato a schiaffi in faccia ma un pudore oggi meno comprensibile. Benché nella sceneggiatura originale i due dovevano aprirsi a rapporti a tre con gli altri personaggi, in quella finale Penn e Beatty mitigano quest’aspetto temendo che il pubblico li percepisse come “deviati”. Il risultato è che Clyde non riesce ad avere rapporti con Bonnie nonostante lei lo voglia, suggerendo un misto tra impotenza (perché ci prova senza successo) e omosessualità (perché non ne sembra mai davvero attratto): “I told you I’m no lover boy”, le dice dopo il primo fallimentare tentativo.
C’è un’indecisione in quelle scene che, vista oggi, non fa per niente il paio con l’audacia nel rappresentare la violenza. Anche l’uso del silenzio (che è uno dei marchi di fabbrica del film) è molto meno funzionale che altrove.

Anche in questo forse Gangster Story rispecchia molto dell’evoluzione del cinema americano, più reticente sul lato sessuale, più spinto in quello violento, più determinato a raccontare il proprio paese a partire dal rapporto con la violenza, il sangue, la morte e la confidenza con l’omicidio che da quello con il sesso.

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