Gioventù bruciata compie 65 anni, e il suo protagonista James Dean ne avrebbe compiuti 90 l’anno prossimo, se non fosse morto a 24 anni in un incidente stradale mentre guidava una Porsche customizzata dalla stessa persona che creò la Batmobile della serie sul pipistrello degli anni Sessanta.

Inevitabilmente, quindi, quando si parla di Gioventù bruciata si parla di James Dean, al tempo fresco di nomination all’Oscar per La valle dell’Eden e scomparso un mese prima dell’uscita in sala del film di Nicholas Ray; il più grande talento della sua generazione, o così si diceva all’epoca, bruciato insieme a una promettente carriera come la gioventù del suo film più importante e iconico. Ispirato a un saggio di psichiatria del 1944 e immediatamente diventato una bibbia adolescenziale insieme a Il selvaggio con Marlon Brando (nell’attesa dell’arrivo sulla scena di Elvis, che avrebbe monopolizzato la categoria per anni), inestricabilmente legato al nome e al destino del suo protagonista, Gioventù bruciata è riuscito in questo modo a diventare negli anni un film quasi incompreso, o ricordato per i motivi sbagliati – o meglio, non per tutti i motivi per cui dovrebbe venire ricordato.

 

Gioventù bruciata Dean

Gioventù bruciata non è un film per vecchi

L’idea dietro a Gioventù bruciata, scritto e diretto sì da un rivoluzionario ma che all’epoca aveva superato da un po’ i quarant’anni e cominciava ad ammalarsi della sindrome del vecchio che dà consigli, è quella di raccontare la vita degli adolescenti americani nell’immediato secondo dopoguerra, quando il rischio era passato e il Paese era pronto a ripartire ma anche quando un’intera, giovane generazione non più dedita alla sopravvivenza in tempo di guerra ma al trovare un senso alle cose in tempo di pace si ritrovò per la prima volta a scontrarsi con quelle precedenti, e soprattutto con quell’insidioso nemico che si chiama “noia” e che solo chi non sta lottando per la propria vita può permettersi di affrontare.

E questo è il primo punto di cui bisognerebbe discutere quando si parla di Gioventù bruciata, che viene descritto come “un documento storico” ma che in realtà è fatto di assoluti e di archetipi, di figure che si ripetono e si rigenerano generazione dopo generazione e che anche noi che siamo cresciuti negli anni [scegliete voi quando] non facciamo fatica a riconoscere, pur con tutte le differenze del caso. Gioventù bruciata non è solo un film sugli adolescenti annoiati degli anni Cinquanta e su quel nichilismo autodistruttivo e para-filosofico che solo un sedicenne disorientato e rigonfio di ormoni riesce a concepire; è un film su qualsiasi adolescente dagli anni Cinquanta a oggi e sulla crisi esistenziale che inevitabilmente colpisce con l’arrivo della pubertà.

 

Gioventù bruciata giubbotto

Gioventù bruciata è il Fight Club degli anni Cinquanta…

Ovviamente le maschere della messinscena cambiano, e oggi per noi sono quasi irriconoscibili (e incomprensibili, visto che parlano un linguaggio parallelo il cui significato si capisce principalmente per deduzione e contesto), ma la realtà è che non c’è nulla in Gioventù bruciata che non si sia rivisto in un’infinità di drammi adolescenziali (e non solo – Fight Club in un certo senso è il Gioventù bruciata degli ultratrentenni) successivi. Descriverlo solo come un documento storico, e James Dean come il volto di una generazione e solo di quella, è limitante, perché Nicholas Ray fa di tutto per astrarre i suoi personaggi dal contesto temporale e dare loro un respiro quasi epico. Buzz (Corey Allen) non è solo il bullo di turno ma l’archetipo della nemesi dell’eroe (o anti-eroe), è Iceman di Top Gun, così come il padre di Jim Stark/Dean è Eugene Levy in American Pie; pezzi di Gioventù bruciata si ritrovano qui e là nei successivi 65 anni di cinema americano (a dimostrazione che l’America come Paese non è mai cambiata né maturata granché da allora, forse?).

C’è un altro aspetto di Gioventù bruciata che viene discusso meno o comunque non abbastanza, ed è il suo rifiuto (per quanto non completo) di una serie di sovrastrutture sociali che nel 1955 erano date per scontate e sulle quali ancora oggi si discute più di quanto sarebbe prevedibile. La più grossa tra queste è la famiglia, la vera villain del film e la principale accusata dell’opera di Nicholas Ray; o sarebbe meglio dire le famiglie, visto che delle tre che vengono messe sotto la lente (quella di Jim, quella di Judy e quella di Platone, il personaggio di Sal Mineo che è centrale nel discorso che stiamo per fare) non ce n’è una che si salvi.

 

… e anche un po’ il suo Fast&Furious

La famiglia Stark è forse quella che ne esce peggio, in particolare per via del padre Frank (Jim Backus, la voce di Mr Magoo), dipinto come succube della moglie e de-mascolinizzato in ogni modo possibile (memorabile la scena di lui che pulisce un disastro in grembiule): il fatto che non riesca a essere “un vero uomo” è una delle cause del disorientamento di Jim, che si rivolge alle uniche cose che sa fare (bere e fare casino) per dare un senso alla sua vita. Potrebbe sembrare un discorso conservatore e patriarcale (una famiglia ha bisogno dell’uomo di casa per funzionare, se ci prova la donna le cose vanno a rotoli), ma se si va al di là dei ruoli e ci si concentra sulla testa dei personaggi ci si rende conto che il problema non è la femminilizzazione del maschio ma la sua incapacità di esprimere le proprie emozioni e di ascoltare quelle altrui.

Jim Stark non è un “cattivo ragazzo”, un delinquente che viene da un contesto di povertà estrema come era successo fin lì nei film americani. Piuttosto è un adolescente in subbuglio, che ha solo bisogno di trovare una persona che gli permetta di esprimere liberamente le proprie emozioni; un’idea rivoluzionaria per un maschio americano degli anni Cinquanta, che si ritrova a cercare ascolto lontano da casa, presso altre persone che vivono in contesti altrettanto emotivamente stitici (il padre di Judy non vuole essere baciato sulla guancia, la famiglia di Platone non esiste). Ed è così che nasce la famiglia parallela di Jim (la stessa idea di “famiglia” di cui Fast&Furious ha fatto una bandiera, quella che ti scegli), quella composta da lui, Judy e Platone, e dallo spirito del povero Buzz cascato da un precipizio ma con il quale Jim era riuscito a scambiare non solo coltellate e insulti ma anche un momento di introspezione (“Perché facciamo tutto questo?” “Qualcosa dovremo pur fare”) che vale più di ogni discorso con suo padre.

 

Infine…

Per concludere, una nota su Platone che conferma tutti i discorsi che abbiamo fatto finora: il fatto che Gioventù bruciata sia ricordato come “il capolavoro e l’epitaffio di James Dean” e non come “il primo film americano con un adolescente gay” (per quanto non esplicitamente tale: eravamo pur sempre in piena era Hays) dice molto sul peso che le icone hanno sulla nostra memoria, e su quanto poco il film di Nicholas Ray sia passato alla storia per la miriade di piccole e grandi rivoluzioni che ha portato avanti mentre si appoggiava sulle spalle della sua superstar.

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